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24/07/2015
Non so come la vedete voi, io leggendo e rileggendo della notizia della sentenza sulla strage di Brescia mi sono fatto un’idea, e cioè che i reati non dovrebbero mai essere prescritti, che un processo dovrebbe sempre essere possibile, e che ad andare in prescrizione dovrebbe essere la pena, in particolare quella carceraria. Lo so: il diritto a un giusto processo in tempi ragionevoli, la difficoltà della ricostruzione della verità processuale che cresce con il dilatarsi del tempo, la generale certezza del diritto: sono tutti buoni motivi. Ottimi motivi. E però anche il diritto di tutti di sapere che le cose sono andate in un certo modo, che una certa persona è stata responsabile di una certa azione, ecco, è qualcosa che ha il suo valore. Il problema sta nella nostra ossessione pavloviana per la pena, e in particolare per il carcere: ma se fossimo capaci di distinguere le due cose, l’accertamento della verità processuale e la pena in una delle sue molteplici forme, se fossimo capaci di distinguerle al punto da accettare serenamente che non è la pena la cosa più importante, che ci sono situazioni nelle quali la pena può anche non essere comminata e non per questo bisogna sentirsi tristi o arrabbiati o ingannati, se fossimo capaci di questo non ci sarebbe bisogno della prescrizione, non ci sarebbe bisogno di perpetrare la vera ingiustizia, che è quella del rinunciare a sapere e a inquadrare le cose nei limiti variabili che determinano per una società che cosa è giusto e che cosa non lo è.
14/07/2015
Nel momento in cui avvicini la tua guancia alla sua per salutarla la donna scoppia in lacrime e tra i singhiozzi tutto quello che riesce a dire è “ti voleva bene, ti voleva tanto bene”, e tu le mormori nell’orecchio “gli volevo molto bene anch’io” e per un po’ ti rimane addosso una sensazione strana e fastidiosa, gli avrò voluto bene quanto lui ne ha voluto a me, glielo avrò dimostrato, i dubbi che hanno tutti quando è ormai troppo tardi e si capisce quanto è difficile imparare dal passato.
08/07/2015
(…) li lascio con le loro offese e i loro applausi, magari ad interrogare ogni tanto quella loro vecchia divisa, quando sarà messa in un cassetto dopo la pensione, sull’onore e la dignità che essa avrebbe preteso.
Onore e dignità sono parole difficili, e ambigue, e scivolose. In loro nome sono state fatte porcherie indicibili, perché rappresentano una declinazione di qualcosa di ancor più difficile e complicato da pensare, costruire, realizzare, e cioè un modo di stare al mondo. Eppure qualcosa che viene da molto lontano continua a dirci che onore e dignità, se gli togliamo gli orpelli retorici, se le ripuliamo dalla magniloquenza retorica sono cose buone, sono cose piccole e impalpabili e di enorme importanza per arrivare a una certa età senza decidere di spararsi un colpo in testa. Soprattutto sono cose che nel loro nocciolo sono semplici: fai la cosa giusta, e se la fai sbagliata ammettilo, chiedi scusa, poni rimedio. Leggere le parole di Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi a me fa male due volte: mi fa male da cittadino, da persona comune che crede nello Stato e dello Stato e delle sue espressioni concrete si fida – decide consapevolmente di, vuole fidarsi -; e mi fa male da persona che con le divise ci è cresciuta e sa che onore e dignità per molti, moltissimi di coloro che quelle divise le portano non sono parole vuote. Anzi, non sono nemmeno parole. Sono qualcosa di più leggero e al tempo stesso profondo: un modo di stare al mondo, semplice e onesto e perciò difficile, che non le rende migliori di chiunque altro ma le rende meritevoli di rispetto come (quasi) chiunque altro. Le parole della signora Moretti fanno male, e molto, perché sono vere nel perimetro della sua esperienza, che è quella che per lei conta e che a noi dimostra che un altro modo di stare al mondo è, purtroppo, possibile.
25/06/2015
Ora prova a spiegarmelo come se fossi un bambino di sei anni, con calma e parole semplici così che io ti possa seguire. Spiegami perché quando hai letto quel nome, Sofri Adriano (si fa così con i galeotti, no? Cognome-nome così l’ordine alfabetico funziona bene) ti sei riempito di bolle e la pressione ti è schizzata a trecento. Spiegamelo bene, lentamente: perché vedi, io credo che ci siano solo due possibilità. La prima è che tu pensi che uno che è stato condannato non possa più esprimere un’opinione: nemmeno su qualcosa che conosce meglio di chiunque altro, come la prigione, e a proposito di quella storia che la pena non serve solo a punire ma a rieducare le persone e rimetterle nelle condizioni di partenza, uguali a noi che al gabbio non ci siamo mai andati, non ci avrete davvero creduto. La seconda è che tu pensi che il signor Sofri Adriano non possa e non debba esprimere un’opinione, nemmeno su una cosa che conosce molto bene come la prigione, perché è lui, perché si chiama Sofri Adriano ed è stato per decenni uno che ti ha fatto uscire di matto, anche quando diceva e scriveva cose che tu sapevi benissimo essere vere e giuste. Ma questa seconda cosa non potevi farla, i bravi democratici non fanno ostracismo ad personam. E allora ti sei fregato con le tue stesse mani, senza accorgertene hai fatto l’equazione Sofri=condannato; cioè, anche Dell’Utri che pure è una testa fina non potrebbe e non dovrebbe dare un’opinione sulle carceri italiane, no? Non è così, dici? E allora dai, prova a spiegarmelo come se fossi un bambino di sei anni, io sono qui, mi metto comodo.
19/05/2015
Ieri mi hanno fatto fare un giro nelle suites di un albergo che verrà. Un albergo con tante stelle, che sta in un posto molto, molto bello. Almeno per me, si intende: de gustibus eccetera. E’ strano avere a che fare con il lusso degli altri, perché a pensarci bene il punto non è il lusso – cioè quell’insieme di cose che tu non puoi permetterti – ma sono gli altri. Non so chi spenderà qualche migliaio di euro a notte per quei letti, quegli schermi, quelle poltrone, quelle docce, quei colori: posso immaginarlo, parlando di categorie sociali, ma non li conoscerò. E questo me li renderà sostanzialmente accettabili, perché indifferenti nella loro lontananza. E’ il lusso di chi conosci, quello che ti mette davvero alla prova: ieri passavo tra queste camere provando quasi null’altro che ammirazione, la stessa che avrei provato davanti, non so, a un magnifico quadro del Seicento olandese; ma non sono così sicuro della nobiltà delle mie sensazioni se una di quelle porte mi fosse stata aperta da qualcuno di conosciuto, di più o meno vicino alla mia vita. Il fatto è che tutti vogliono viaggiare in prima, ma i posti si esauriscono in fretta.
Poi, tornando a casa in metropolitana, mi chiedevo se quello che avevo visto era davvero “bello”: in che senso, secondo quali parametri, e se questi sono abbastanza corrotti da farmi dire ooohhh davanti a qualcosa di cui non sono più capace di riconoscere la eventuale pacchianeria. Ma nessuno è buon giudice di se stesso, e ho lasciato perdere – faceva fin troppo caldo per certi pensieri.
16/04/2015
Leggo il titolo, dice “La giungla delle fondazioni politiche”, poi vedo che questa giungla è fatta da nientemeno che sessanta liane e penso va’ che vita d’inferno faceva Tarzan.
21/03/2015
Siamo lì che costeggiamo una sopraelevata, gli aerei che atterrano e decollano sembrano vicini da poterli toccare, abbiamo finito gli incontri della giornata ma parliamo ancora delle cose da fare, di lunedì, non ti preoccupare che l’offerta la chiudo in treno tanto abbiamo tre ore da passare, siamo lì con mezzo piede nel weekend e tutto il resto ancora nella settimana lavorativa quando uno dice ma la primavera inizia oggi o domani e in quel paio di secondi che servono a elaborare la risposta mi viene in mente la festa della fioritura dei ciliegi a Shanghai, Gucun Park e le sue migliaia di alberi fioriti e la folla che camminava sull’erba col naso all’insù a guardare i colori nel primo giorno in cui si poteva stare in maniche corte e non avere freddo e non avere caldo, godendo quell’istante perfetto, fragilissimo e altrettanto breve in cui è tutto al suo posto, in quel paio di secondi la rivedo quella domenica a Gucun Park, mi volto e dico “domani, ma le previsioni danno pioggia”.
11/03/2015
Mia mamma, come tutte le mamme, mi ha dato una discreta quantità di consigli. Molti, come tutti i figli, non li ho seguiti, ma uno sicuramente sì: stai attento alle compagnie. Naturalmente nei limiti del possibile, perché è bastato poco per capire che l’idea di essere l’unico artefice della mia vita era bacata come Windows Vista, e quindi c’erano parecchie cosette fuori dal mio controllo. Per dire, i colleghi mica te li scegli: arrivi in un’azienda, ti danno una scrivania, e chi c’è c’è, non è che puoi dire questa sì e quello no come ti pare. E però, sempre i colleghi, un po’ te li scegli: quelli con i quali ti fermi due minuti in più alla macchina del caffè, quelli che dopo un annetto allora ci fermiamo al bar qui sotto e beviamo qualcosa. Per dire, appunto. Gli ambienti, i microcosmi non sono quasi mai completamente imposti: al loro interno ti ci scavi la tua nicchia, e la riempi; o entri nelle nicchie altrui. A me, che non ho un Q.I. sopra la media, questa è sempre stata una cosa piuttosto chiara fin da quando avevo otto anni (no, in effetti non mi posso definire un bimbetto precoce), ed è rimasta tale da allora in poi. Evidentemente però non è così per tutti. Non lo è per una serie di sapienti che ho letto qui e là in questi giorni, quelli che parlando e scrivendo di un certo ambiente sociale non hanno trovato di meglio che ricorrere alla sineddoche e far diventare la loro esperienza quella di tutti considerandola l’unica e sola possibile: nicchie? microcosmi? Ma va là, ma ti pare, troppo complicato; come se nessuno, a partire dalle loro mamme, gli avesse mai detto di stare attenti alle compagnie che si sceglievano; come se nessuno li avesse avvisati che se la loro nicchia era rissosa, rumorosa, prepotente, tronfia il problema non era dell’universo mondo ma del fatto che si erano scelti male i compagni di viaggio, i colleghi con cui fermarsi due minuti in più alla macchina del caffè, che la risposta stava dentro di loro – e infatti era quella sbagliata. La cosa fantastica di tutto questo è che molti di questi sapienti nel tempo sono diventati persone importanti: insegnano all’università, hanno un biglietto da visita con su scritto Social Media Something, scrivono libri, disegnano articolate e talvolta retribuite strategie di conversazione sociale – che è un po’ come pagare per seguire un corso di public speaking tenuto da Rain Man, a ben pensarci – e quindi, che dire, in virtù del loro status bisogna pensare che hanno ragione loro. A me rimane il dubbio del metodo Report, cioè di quella cosa che ti sembra tutto ragionevole finché non senti la Gabanelli e i suoi parlare di qualcosa che tu conosci bene, e allora capisci un paio di cose: la prima è che fai meglio a cambiare canale, e in fretta; e la seconda è che, come sempre, aveva ragione la mamma.
02/03/2015
Forse ha ragione Chuck Klosterman quando dice che nel lungo periodo quelli che rimangono – quelli che lasciano davvero un segno, quelli che si scolpiscono nella memoria – sono i progressisti perché gli umani sono fatti per cambiare, e quindi in qualche modo è solo o almeno principalmente una questione di pazienza. Però ecco, è come l’orologio biologico, il tempo passa: e lo passiamo in un’epoca nella quale chiunque, pure Al Baghdadi, può definirsi e trovare qualcuno che lo definisce un progressista, non c’è un partito conservatore che non sia un paladino del cambiamento perché dai, lo sanno tutti che omen nomen è una cazzata; lo passiamo così il nostro tempo, navigando verso il lungo periodo, quello nel quale – diceva quel progressista – saremo tutti morti.
23/02/2015
Sì, va bene, Scarlett e quell’altro poveretto che gira vestito da uccello e l’SS del jazz, ma gli unici Oscar per i quali valga veramente investire più dei tre minuti del servizio di Sky TG 24 sono quelli – non importa quanto datati – di DFW.
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