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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    19/11/2012

    Greetings from Zagreb 2012 – 18.11.1991

    Filed under: — JE6 @ 23:44

    Entro a Zagabria facendo la solita strada, quella che oggi era immersa nella nebbia delle colline slovene, un’autostrada che entra in città prendendo il nome di Zagrebacka Avenija e tira dritta per una decina di chilometri tenendosi il centro sulla sinistra e la Sava sulla destra. Il rosso di un semaforo mi dà tempo per guardare un grande striscione che attraversa questo enorme e lunghissimo viale. Non so il croato, non so cosa vi sia scritto: ma leggo “Vukovar, 18.11.1991”. I casi della vita, li chiamano: proprio ieri sera ho finito di leggere “Maschere per un massacro” di Paolo Rumiz, che alla distruzione di Vukovar, alla sua caduta avvenuta – ecco cosa ricorda lo striscione: sarà una mostra? o una manifestazione commemorativa? chissà – il diciotto novembre di ventuno anni fa, ai dodicimila tra bombe e razzi giornalieri che finirono per rendere questa la prima città europea completamente rasa al suolo dopo la fine della seconda guerra mondiale, ai più di trentamila civili croati deportati dai serbi dedica decine di pagine. Non è la prima volta che vengo da queste parti e mi trovo a guardare questo o quel palazzo chiedendomi se quelli che a volte credo di vedere sono gli sbiaditi segni di una guerra atroce che è finita giusto l’altroieri, se le persone con cui parlo hanno avuto dei morti in famiglia o tra gli amici – e quanti, e dove, e come. E perché. Quando torna il verde innesto la marcia, e riparto, e penso che una volta o l’altra dovrei prendermi un giorno di ferie, uscire la mattina presto, staccare il telefono e mettermi in strada, e cercare con i miei occhi quel poco che è rimasto da vedere. Una volta o l’altra, chissà.

    10/11/2012

    Zwei unbekannte Soldaten

    Filed under: — JE6 @ 13:06

    Sto sfogliando le pagine del “Piccolo” di Trieste, unico cliente di una trattoria di Opicina. C’è una pagina intera scritta da Paolo Rumiz, seguito di un articolo precedente “sull’ingiusto oblio dei Caduti e combattenti triestini, goriziani, istriani, fiumani e dalmati in divisa austro-ungarica nella prima guerra mondiale”. Lo leggo mentre finisco il mio quarto di bianco, faccio due conti veloci, quanto dista Prosecco, a che ora posso arrivare a Milano, quanto tempo posso impiegare per trovare il cimitero di guerra austroungarico di cui scrive Rumiz. Sette minuti per arrivare a Prosecco, affianco una signora anziana che ha delle verdure in mano, le dico cosa sto cercando, lei dall’altra parte del finestrino mi guarda come se le stessi parlando di fisica quantistica e in un misto di italiano e triestino mi dice che non ha mai sentito parlare di quel cimitero, vada avanti un chilometro fino ad Aurisina, poi chieda in piazza. Obbedisco, non trovo nessuno a cui chiedere, il navigatore non mi è di aiuto. Decido che sarà per la prossima volta, torno verso l’autostrada e come sempre capita eccolo, il cartello giallo nascosto dietro un angolo che non avrei mai visto se le curve di questa provinciale non obbligassero ad andare a trenta all’ora. Dopo cinquanta metri la strada si divide e naturalmente non c’è più alcuna indicazione, come se si volesse evitare di far arrivare chicchessia a quel cimitero, renderne impossibile la frequentazione per annullarne il ricordo, e l’esistenza. Scelgo uno dei due vicoli, dopo un paio di centinaia di metri incontro un signore che sta facendo due passi tra gli alberi umidi di questo bosco e lui sì, lui sa, guardi è proprio lì avanti, stia solo attento alle buche della strada. Ha ragione, ormai ci sono, giusto altri tre minuti di fango, buche e rovi. Apro il cancello, guardo le croci di pietra, l’erba alta e non curata, le tante sterpaglie, i fiori finti bianchi o rosa che stanno ai piedi di alcune tombe. Leggo le targhe, piccoli rettangoli metallici sui quali stanno scritti i nomi dei caduti. Sono cognomi tedeschi o austriaci, molti ungheresi, ne trovo uno italiano. Mi chiedo come comunicassero tra loro questi uomini, se erano divisi in plotoni per provenienza e lingua, cosa li unisse, come si salvavano la vita a vicenda un caporale del Balaton e un soldato di Lienz – forse a gesti, a spintoni, di istinto come animali. Faccio un rapido conto delle croci, saranno sette o ottocento, forse un migliaio. Leggo un’altra targa, sotto il nome di un soldato austriaco c’è la scritta “Zwei unbekannte Soldaten” – due soldati sconosciuti, dei quali non si sa il nome, militi ignoti. Mi avvicino al piccolo altare in pietra sormontato da una croce dove in tre lingue – italiano, tedesco e quel che credo essere sloveno, certo non è ungherese – si dice che qui stanno i resti di 1934 soldati austroungarici. Ci sono lumini sui quali sono stati intrecciati nastri tricolori magiari, c’è una corona con un nastro bianco e rosso lasciata dalla Croce Nera d’Austria, l’associazione che mantiene in vita il ricordo dei soldati austriaci morti nelle due guerre visitando i cimiteri di guerra sparsi per l’Europa. Un migliaio di croci, il doppio di morti, il conto degli unbekannte è fin troppo facile. Esco dal cimitero e mentre chiudo il cancello incerto della sua entrata mi chiedo se la settimana scorsa, nel weekend che noi fingiamo di dedicare ai nostri morti qui sia venuto qualcuno a far visita, mi chiedo se per caso questi cinque minuti passati nel mezzo di un bosco della provincia di Trieste con l’asfalto dell’autostrada a meno di mezzo chilometro di distanza non siano stati un omaggio a qualcuno che non se lo meritava: gli austroungarici sono stati nel 15-18 quel che le SS sono state venticinque anni dopo? Non lo so, dovrei leggere, dovrei studiare, dovrei capire, perché non vorrei fare la fine di quella buona signora che ho fermato a Prosecco, quella che non poteva non sapere di questo posto e invece. E mentre penso questo penso pure la cosa contraria, se abbia senso, cent’anni dopo, rifiutare al caporale del Balaton e al soldato di Lienz quel minimo sindacale di pietà che sta nel fermarsi a guardare le loro tombe e appoggiarvici sopra la mano, e anche a questa domanda non so darmi risposta.

    09/11/2012

    Greetings from Ljubljana 2012 – Casa

    Filed under: — JE6 @ 09:15

    Passo questi giorni a Ljubljana a casa di un collega, un signore che per seguire un mio cliente si è trasferito qui, vista castello. E’ strano fare la solita vita – parcheggiare la macchina, aprire il trolley, andare a cena in uno dei ristoranti che nell’ultimo anno abbiamo imparato a conoscere così bene, dormire il sonno spezzato dei giorni che precedono appuntamenti importanti o difficili (non che il sonno degli altri giorni sia lineare: ma ci siamo capiti) – e al tempo stesso non trovarsi nella solita routine – la doccia usando le boccette di shampoo e bagnoschiuma dell’albergo, what’s your room number Sir per la colazione, la televisione con cento canali in dieci lingue. E’ come essere, paradossalmente, persino più ospiti del normale: se lasci qualcosa in disordine non tocca a una cameriera pagata per quello rimettere a posto le tue incurie, ti muovi un po’ in punta di piedi, guardi i particolari della vita vissuta – uno stipite appena scheggiato, un tappeto, i libri nel mobile del salone, cose così. Poi ti svegli, ti prepari, scendi al piano di sotto, apri tutti i cassetti della cucina prima di riuscire a trovare un cucchiaino, incroci il collega in accappatoio che si è svegliato tardi ed ha appena finito la doccia: e ti viene da ridere, un po’.

    27/10/2012

    Greetings from Ljubljana 2012 – Wish You Were Here

    Filed under: — JE6 @ 20:09

    In un momento di silenzio, dopo due giorni di acqua e chilometri, mentre guardiamo l’altare maggiore di una chiesa nella quale siamo entrati un po’ per dovere di turisti e un po’ per sfuggire all’ennesimo scroscio di pioggia di questo autunno sloveno mi volto a guardare gli amici di una vita, e davanti agli occhi mi si mischiano le immagini di altre zingarate come questa fatte in una specie di altra vita, e quelle dei resti del mercato dei fiori che abbiamo da poco riattraversato, e quelle di chi non ci sarà  mai più e ci mancherà  sempre e vorremmo potesse tornare indietro, potesse tornare qui, c’è un posto libero nel pullmino, non dobbiamo nemmeno stringerci, di stretto in questo momento ho solo lo stomaco.

    23/10/2012

    Greetings from Shanghai – Massimo

    Filed under: — JE6 @ 17:24

    Massimo ha gli occhi a mandorla. Viene da una famiglia cinese, e il cinese lo sa parlare e leggere. E’ nato a Roma, al Prenestino. E’ andato a vivere a Guidonia, parla come uno dei cento comici romani che passano in televisione, adesso è qui a Shanghai a fare uno stage. “A Se’, s’oo famo un caffè?” mi dice, e nel piccolo e caldo cucinotto dell’ufficio lo vedo gustarselo come me, come un italiano qualsiasi quale è. Come ti trovi, gli chiedo, e lui dice bene, mi piace, penso di fermarmi qualche mese, poi vorrei andare a Parigi per fare un anno di specializzazione, e poi vediamo. Mentre cerco il cestino nel quale gettare il bicchierino di carta del caffè visualizzo i suoi spostamenti sul mappamondo. Io per il momento viaggio più di lui, ma lo faccio per lavoro: lui, invece, per farsi una vita, per scelta e non per obbligo e non so perché, ma ho la sensazione che a Guidonia non lo rivedranno presto, e forse non lo rivedranno più.

    21/10/2012

    Greetings from Shanghai – Centro di gravità permanente

    Filed under: — JE6 @ 23:45

    Al terzo fuso orario in otto giorni mi metto a guardare fuori dalla finestra di questo grattacielo, osservando stupito che alle quattro del mattino persino Shanghai rallenta quasi al punto di fermarsi. Già che ci sono sbrigo un po’ di posta, guardo foto di una festa, confermo degli appuntamenti. Faccio mentalmente il calcolo, lunedì scorso andavo a letto mentre in Italia si entrava in ufficio, giovedì facevo colazione mentre a Milano era passata già mezza giornata di lavoro – come il BlackBerry non si spiaceva di testimoniarmi -, adesso sto dall’altra parte della terra e mi levo dal letto quando è finito da poco l’ultimo posticipo della Serie A. Guardo una cartina, con l’Italia in mezzo tra America e Cina, disegno mentalmente gli spostamenti di questo periodo, e sento quanto è pesante fare una vita normale tenendo il centro di gravità a diecimila chilometri di distanza, est o ovest che differenza fa.

    Greetings from Shanghai – La croce rossa

    Filed under: — JE6 @ 17:49

    La si vede dalle finestre dell’albergo, dalla fermata della metro di People’s Square, dal perenne ingorgo di traffico lungo Xizang Lu. E’ una chiesa cattolica, apre solo la domenica, non so se tengono delle funzioni. E’ in mattoni scuri, incastrata fra le luci dei grattacieli e dei negozi. Ha una croce, sul tetto a punta. Una croce rossa, che devi un po’ cercare in mezzo a quella miriade di colori, e poi quando la vedi fai fatica a staccare gli occhi perché fai fatica a credere alla sua esistenza – e no, il comunismo e la repressione non c’entrano nulla, è tutto il resto. Verso le nove di sera la croce si spegne, come se avesse bisogno di riposare al termine di una giornata faticosa in un ambiente indifferente, mentre lungo le strade si mangia, si balla, si offrono orologi, borse e ragazze.

    19/10/2012

    Greetings from Birmingham MI – Larger than life

    Filed under: — JE6 @ 19:18

    Mi piace l’America della provincia, quella che sta fuori dalle grandi città, quella dei telefilm della Disney o dei film di serie B, quella delle ville a schiera, delle foglie gialle e rosse, delle macchine della polizia che aspettano a luci spente dietro una curva, delle bandiere che sventolano davanti alle scuole, delle birre ghiacciate, delle scarpe grosse. E’ qualcosa che sta nell’aria, che non saprei descrivere, qualcosa che avverti a occhi chiusi, un senso di grandezza fiduciosa, di enormità che ti aspetta, qualcosa che ogni volta mi prende allo stomaco e ogni volta che si avvicina il momento di riprendere l’aereo me lo chiude per la malinconia dell’abbandono.

    18/10/2012

    Greetings from Birmingham MI – Chi l’avrebbe mai detto

    Filed under: — JE6 @ 17:13

    Sono quasi le undici di sera quando appoggiamo le forchette. Vuoi un caffè, mi chiede, certo, gli rispondo. Mi guardo ancora intorno, passo gli occhi lungo tutta la parte visibile di questa enorme casa, americana fino al midollo, messa in mezzo a una città che è la quintessenza della provincia borghese americana, un posto di scuole enormi e linde, grandi prati, bandiere stelle-e-strisce, distributori, chiese battiste, foglie rosse, viali a otto corsie, radio con i nomi di quattro consonanti, baseball e tutto, tutto quello che ci ha accompagnati da quando avevamo cinque anni. Sei il primo ospite di questa casa, mi dice l’amico di una vita che si è trasferito qui nei sobborghi di Detroit da poco più di un mese. Sorrido. Appoggiamo i gomiti sul piano di marmo della cucina. Chi l’avrebbe mai detto, inizio io. Che ci saremmo trovati a cena a Birmingham, Oakland County, Michigan, finisce la frase lui. Ci mettiamo a ridere, anche se dentro la risata stanno due sospiri, diversi e uguali. Allora, il caffè?

    16/10/2012

    Greetings from Las Vegas 2012 – L’abito da lavoro

    Filed under: — JE6 @ 17:56

    Li vedi, tra le dieci e le undici del mattino. Si mettono vicino ad un albero, o appoggiati al cemento di uno dei tanti ponti pedonali che permettono il passaggio da un lato all’altro della Strip. Si tolgono la maglietta, e indossano il loro abito da lavoro: per qualcuno la t-shirt verde con il numero di telefono da chiamare per avere una ragazza in camera entro mezz’ora, per qualcun altro un’armatura da robot, o da macchina dei cartoni animati, o da personaggio dei fumetti. Si preparano per la loro giornata lavorativa, e hanno lo stesso sguardo nostro di quando entriamo nei nostri uffici alle nove del mattino di un qualsiasi giorno di ottobre a Milano.