Capirla male
In questi giorni ho spesso a che fare, per lavoro, con una persona. Io le parlo, e lei non capisce. O, per essere più preciso, capisce altro. E’ capitato quando ci siamo visti per la prima volta, in un’altra città; e poi per telefono, e via mail. Non è stupida, e io credo di aver maturato nel tempo quel minimo sindacale di capacità di dire ciò che intendo; eppure. E’ tutto un “sì, ma”. E’ tutto un chiudere la comunicazione e restare in uno stato di spaesamento: ripercorro i vari passi, cos’ho detto io, cos’ha risposto lei, senza mai trovare una risposta sensata, un finale diverso da “ma questo/a è matto/a” (perché sono certo che lei pensa altrettanto di me). Il fatto che parliamo di lavoro non è un dettaglio, lo so: abbiamo interessi da difendere, lei compra e io vendo, e dietro ci stanno non solo soldi, ma altre persone, e obiettivi, e capi ai quali riportare, e più in là nella catena vacanze serene e mutui da pagare. E però non è solo quello. Capita – e mi pare che avvenga sempre più spesso, più in generale nella vita – che dici una cosa e ne viene capita un’altra, una versione dadaista della Torre di Babele (ma lì almeno avevano la giustificazione delle lingue diverse). E’ frustrante e sfiancante, e a me ogni tanto fa passare la voglia di tenere contatti umani. Il fatto è che ha ragione Philip Roth, il fatto è che “capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male”. Il fatto è quello.