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14/10/2013
Era da queste parti, me lo ricordo. Chissà perché avevamo fatto la rotta così a nord: guardammo giù, e non c’erano nuvole ma ghiacci, quelli della Groenlandia che stavamo sorvolando. Questa volta invece sono quattro o cinquemila chilometri di nuvole, nuvole di ogni tipo, forma, consistenza, dimensione. Si apriranno un po’ solo sopra il Canada. Così leggo, guardo un film, le solite cose che si fanno in un viaggio lungo. E quando butto lo sguardo fuori dal finestrino vedo la scia. Dev’essere stata lasciata da un altro aereo, uno che ci ha preceduto e che volava alla nostra stessa altezza, la vedo bene, chiara, è come guardare da vicino una colonna vertebrale, ha esattamente la stessa forma, solo non regge nulla se non se stessa per non so quanti chilometri, almeno dieci minuti a novecento all’ora, fino a quando si assottiglia senza sfaldarsi, e diventa sempre più fine, e poi sparisce, come se qualcosa morisse qui, a diecimila metri di altezza.
31/05/2013
Mi sono sempre piaciuti più i porti del mare. I moli, le gomene, le gru, le scalette. I fari, e l’acqua che sbatte, e le meduse e i pesci che non capisci come possano vivere in quell’acqua scura e densa. E l’odore, il porto ha un odore suo preciso, odore di porto come odore di stazione, fatto delle cose e delle persone che si sono succeduti e sedimentati nel tempo. A Trieste arrivo quasi sempre da Opicina, passo davanti alla stazione di partenza del tram e poi faccio sfilare sulla destra l’obelisco, scendo, giro a destra e poi a sinistra e c’è un tratto, saranno cento metri, cinque o dieci secondi, c’è un tratto che gli alberi si aprono e vedi là sotto la città, e il porto, e le navi in rada. Sono le navi che piacciono a me, non quelle da crociera, sono petroliere e portacontainer, lunghe basse e sgraziate, navi di fatica che si fermano a riposare tenendo di fronte a sè Miramare e San Giusto. In quei cinque o dieci secondi non vedi niente eppure vedi tutto, i caffè, Via del Pane, la statua dei bersaglieri e quella delle sartine, e la piazza più bella d’Italia, che riluce quando piove e splende quando c’è il sole, i cantieri, i ragazzi che finita la scuola si bevono un bianco, le reliquie del santo protettore dei dalmati, la Risiera dello sterminio e i poeti, e le chiese, le chiese una più bella dell’altra, la bellezza lancinante di quella greco ortodossa con le foglie di alloro sul pavimento e quella più sottile della sorella serba, giusto duecento metri più in là come le famiglie che vivono nelle corti di campagna, unite ma separate, separate ma unite. Ogni volta che vengo a Trieste parcheggio al Molo 4, guardo i vecchi edifici in rovina, il binario che finisce nel nulla, e più in là l’acquario – anzi: l’Aquario – e il palazzo col nome più bello del mondo, il Palazzo degli Incanti che sì, lo so, non sono le opere del genio della lampada, e al limite fisico della vista i mercantili che aspettano il loro turno, e ogni volta non so perché ma mi sento in pace col mondo, e quando vado via ho paura di non poterci tornare più.
01/04/2013
Sono passati trentasei anni dalla morte del “Quattro volte grande”. Di lui si è detto tutto, e certamente tutto il peggio che si poteva dire: la follia della Rivoluzione Culturale, le carestie, le decine di milioni di morti a causa delle sue politiche (e dei più realisti del re: che ci sono sempre, e sono sempre i più pericolosi). Eppure la sua enorme fotografia sta lì, all’ingresso della Città Proibita, la casa degli imperatori. Eppure ogni mattina per quattro ore c’è un flusso costante di persone che si dispone su due file per poter vedere per pochi secondi il suo corpo nella teca di cristallo, vestito con l’uniforme verde e coperto dalla bandiera rossa, e tante di queste persone spendono tre yuan per comprare un fiore bianco da lasciare in omaggio una volta entrati nella prima grande sala, quella con la sua statua di marmo bianco, lui seduto con la gamba destra accavallata sulla sinistra e lo sguardo placido e duro di chi conosce il proprio potere. Trentasei anni sono un’eternità, in trentasei anni la Cina è diventata quel che abbiamo sotto gli occhi e il mondo intero è un’altra cosa; ciò nonostante siamo andati in piazza Tian’anmen, ci siamo messi in coda, chi l’aveva si è tolto il cappello, abbiamo comprato e lasciato il fiore bianco: avendo la sensazione che essendo qui fosse una cosa da fare, e tenendo il dubbio di esserci divertiti ad adorare il male per il gusto di poterlo dire agli amici. Questo, noi occidentali. Ma loro?
30/03/2013
Ci sono posti che hai nel cuore fin da quando eri bambino. Senza un motivo particolare, magari: una favola, un racconto, un film visto insieme a papà, un giornale sfogliato dal barbiere in attesa di salire sul sedile con il cavallo di ferro, una fotografia sul sussidiario. Sono i posti che hai persino timore di vedere, quando ti capita l’occasione di metterci piede per davvero: hai paura che non corrispondano ai tuoi sogni, che siano troppo inferiori a quanto hai immaginato per una vita. Per me la Grande Muraglia Cinese era uno di questi posti, e questa mattina quando siamo saliti sulla macchina che ci portava a Mutianyu avevo proprio quel timore – l’orda di turisti, le pattumiere a cielo aperto, le montagne dalle quali non arrivano i cavalieri mongoli all’assalto dell’impero, i banchetti che vendono le magliette “I have climbed the Great Wall of China” a tre euro l’una. Poi ho trovato tutto questo (tranne le pattumiere a cielo aperto: di quelle era costellata la strada fin da Pechino, ma sono sparite una volta iniziata la salita verso le torri di avvistamento), e ho trovato una giornata di sole velato e di aria fredda, le montagne brulle, i saliscendi spaccagambe, il cielo infinito, le pietre grigie, e uno dei desideri di un bambino con i capelli bianchi.
Ci sono luoghi che riescono a restare magnifici nonostante le orde di visitatori che li assaltano, come se avessero dentro una forza particolare che non sai dire da dove viene – la bellezza estetica, la storia che gli sta alle spalle, la solidità dei materiali, la sacralità che li ha riempiti giorno dopo giorno lungo secoli e millenni, vai a sapere. La Città Proibita è uno di questi. Riesco a passarci dopo un appuntamento di lavoro e prima di un altro, ci vorrebbe un giorno o una settimana per poterla vedere tutta e io, come chiunque, ci sto un’ora o due ripromettendomi di tornarci una volta nella vita e sapendo che invece questo probabilmente non succederà. Ma in fondo non importa più di tanto, non importa essere uno dei milioni di pesci che dal marciapiede che dà su Tian’anmen vengono incanalati nel fiume che passa sotto le grandi porte dopo aver scattato mille foto tenendosi il ritratto di Mao alle spalle, non importa trovarsi tra una comitiva croata e una dello Yunnan, non importa sfuggire ai venditori di cappelli e bandierine (per poi comprarli, e con la felicità di un bambino), non importa niente di tutto questo quando ti trovi di fronte il Palazzo della Suprema Armonia – non c’è più gente, non ci sono più rumori né macchine fotografiche, c’è solo qualcosa di meraviglioso che non riesci a farti stare tutto negli occhi, qualcosa che non dimenticherai più.
Passare da Shanghai a Pechino è come andare da Barcellona a Francoforte, un po’ per il clima, un po’ per l’aria che ci respiri – da una parte i bon vivant, dall’altra quelli che se non ci fossimo noi a tenere in piedi la baracca. Ma sono solo sensazioni: qui ci sono meno colori, meno grattacieli e più grandi palazzi, moltissime bandiere nazionali, le strade sono lunghissime larghissime e drittissime, il traffico è sempre pesante ma molto meno schizofrenico. E’ un altro paese, come Milano è altro da Roma e Torino è altro da Napoli, ed è lo stesso paese nell’inurbazione, nel modo di trovare una soluzione ai problemi che l’approssimazione eletta a stile di vita necessariamente va a creare, nella scelta di prendere alcuni pezzi di Occidente, comprarli e usarli ostentandoli e prenderne altri, comprarli e svuotarli per renderli propri senza che questo sia troppo evidente. In diversi mi hanno detto, facendo il confronto con Pechino, “ah, ma Shanghai non è Cina”. Io mi guardo intorno e cerco di capire come una città, per quanto più grande della Campania, possa essere altro e più di una città, mi chiedo cosa significhi “essere Cina” quando quelle quattro lettere indicano un miliardo e mezzo di persone, cinquanta e passa etnie diverse con le loro lingue, culture, tradizioni, climi: è che abbiamo sempre bisogno di semplificare per non perdere la testa, per illuderci di avere le cose sotto controllo almeno nella nostra testa; la verità è che non sappiamo mai niente delle vite che stanno fuori da quelle che compongono i nostri microcosmi, figurati quando di vite, nei tuoi dintorni prossimi, ce ne sono venti milioni.
28/03/2013
Ci vogliono cinque ore per fare i circa 1300 chilometri che separano Shanghai da Pechino. Alcuni di noi – quelli che su questo treno sono già saliti tante volte – si siedono e si addormentano, o rispondono alle prime mail della giornata. Gli altri, siamo in due, stanno con il naso appiccicato al finestrino come bambini eccitati. Non è facile spiegare cosa si vede, ed è stupido cedere alla tentazione di credere che davvero stai vedendo un paese: soprattutto se di queste dimensioni. Quella che ti passa davanti agli occhi è una striscia, profonda per quanto te lo consentono il clima del giorno e l’inquinamento, niente di meno ma niente di più: è una striscia fatta di palazzi che si abbassano in altezza dall’Himalaya di Shanghai alle casette tutte uguali dei villaggi, di campi eterni nei quali non vedi nessuno lavorare, di rare colline, di polvere e un senso di abbandono potentissimo. Dove sono tutti quanti, viene da chiedersi. Poi ti ricordi dei ventiquattro milioni di persone che vivono nell’area di Shanghai, dei venti che stanno a Beijing e dei dieci che abitano a Shenzhen, dell’immenso movimento di persone da questi campi a queste città; e nonostante la sensazione che ci prende, a noi due neofiti, per almeno quattro delle cinque ore del viaggio, la sensazione di essere di fronte a uno dei quei brutti film sulle catastrofi nucleari a volte intervallata dallo stupore pieroangeliano nel guardare questi microscopici agglomerati di abitazioni dove le case sono tutte identiche, tutte messe nella stessa posizione con la porta che dà verso sud su tre o quattro vie lunghe ciascuna cinquanta o cento metri, nonostante la straniante sensazione di attraversare uno dei paesi più popolosi del mondo trovandolo vuoto, nonostante tutto questo ci dimentichiamo dei nostri libri e della nostra musica e restiamo lì, per ore, a guardare una specie di nulla al quale proviamo a dare un senso scolastico, non disponendo di quello della vita reale.
06/12/2012
Non ha tende né tapparelle, questa finestra. Fuori, la neve, le luci di Natale che non si spengono mai, il fiume freddo. Perché è così bianco questo cielo? Dovrebbe essere buio a quest’ora della notte. E il castello, rosso sangue che cola dalla collina fino ai bar che hanno chiuso da poco. Chissà dove sono le medicine.
21/11/2012
Novo Mesto è fabbriche che si svuotano. Novo Mesto è profumo di legna bruciata, odore di aglio e un sentore di caffè che esce da una Kavarna di velluti rossi. Novo Mesto è boschi e parchi, ed è un ponte che attraversa il fiume Krka, un ponte dove vedi la ruggine, dove ti fermi a guardare la corrente incerta, dove pensi, ricordando quel che sai di quel paese che un tempo non lontano si chiamava Jugoslavia, che finché c’è un ponte c’è qualcosa che assomiglia a una speranza.
20/11/2012
Sta seduto a ore otto, come me ha chiesto al cameriere la password della wi-fi del ristorante, come me sta guardando sul display un messaggio di errore. Mi rivolge la parola, in inglese. Io rispondo, a metà della frase mi dice sei italiano, vero? e io rispondo sì, rimanendoci anche un po’ male, si vede che per quanto ti applichi l’accento di casa non riesci a perderlo. Scambiamo quattro chiacchiere, alla fine decidiamo di farci compagnia per questa cena, due perfetti sconosciuti che si dividono il tavolo, ciao sono F., ciao sono S.. Facciamo lo stesso lavoro, giriamo per vendere, per aprire nuove filiali, per trovare agenti. Io gli racconto del mio settore, lui mi racconta del suo, ciascuno sgrana gli occhi nel sentire gli aneddoti dell’altro, no dai, stai scherzando, fai quel fatturato vendendo canottiere, ma allora ho sbagliato mestiere, i clienti come li trovi. Abbiamo persino conoscenze in comune, una grande catena della grande distribuzione slovena, diosanto quant’è piccolo il mondo. A vederci da fuori forse facciamo un po’ compassione anche se siamo vestiti bene e abbiamo uno smartphone a portata di pollice, forse sembriamo la versione impiegatizia di qualche personaggio di Bukowski o di Carver, se ci fosse un bancone saremmo lì con i gomiti appoggiati e un boccale di birra che si riscalda sotto gli occhi a tirare l’ora di andare a letto, o quella di mandare le ultime offerte sperando che i clienti mantengano le loro promesse. Usciamo dal ristorante, facciamo due passi verso la grande piazza dove pare che passino tutti i tram del mondo, io giro qui, ho l’albergo dietro l’angolo, io vado dritto, ho la macchina parcheggiata dietro la cattedrale, allora ciao, in bocca al lupo, ciao, magari ci troviamo ancora da queste parti, va bene, mi raccomando in Russia, sì, e tu in Cina, ciao, buonanotte, buonanotte, ciao.
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