Cose serie, o dell’essere nella stessa barca
Ieri sera parlavo con una persona che lunedì ha trascorso mezza giornata bloccata in autostrada e l’altra mezza giornata ferma in aeroporto in attesa dell’ultimo volo, in sostituzione di quello perso in mattinata – il tutto grazie allo sciopero degli autotrasportatori. Un caso fra mille o centomila, senza nessuna particolarità: una persona che aveva un appuntamento di lavoro a qualche decina di chilometri da Londra, niente di più. Una privilegiata? No. Una donna con una casa, un marito, due figli, che rientra tardi la sera e spesso si ritrova a leggere la posta alle quattro del mattino. Come molte, molte altre persone. Persone il cui lavoro è solo apparentemente meno precario di quello di un camionista o di un operaio alla catena di montaggio, il cui futuro professionale – e non si parla di crescita, bensì di puro mantenimento – dipende dalla chiusura positiva di un buon contratto nel Northumberland o dalla capacità/possibilità di sostituire una scheda difettosa a Trondheim in meno di 24 ore.
Naturalmente tutti sono capaci di fare le debite proporzioni, di capire che il lavoro alla ThyssenKrupp può essere anche fisicamente pericoloso, oltre che di incerto futuro – pericolo che non viene corso dal sottoscritto o dalla persona con cui parlavo ieri sera, a meno di non comprendere nella categoria la possibilità di abbioccarsi al volante su un curvone dell’Autobrennero dopo aver guidato per settecento chilometri.
Dove voglio andare a parare? Non lo so bene nemmeno io; so che provo infinita pena (e molta rabbia) per chi muore cadendo da un’impalcatura, ma so anche che provo un fastidio, chissà quanto irragionevole, che tengo a bada per questioni di educazione quando avverto la retorica strisciante dello sfruttamento – chè un conto è la schiavitù, e un conto il far parte, in punti e con funzioni diverse, dello stesso grande meccanismo, e sapete, capita anche a noi – noi scendiamo da un aereo per salire su un altro – di trovarsi un giorno di fronte allo schermo di un computer che mostra la faccia di un signore che si trova a duemila chilometri di distanza e dice a te e ai tuoi colleghi con l’aria più compunta e però serena che si possa immaginare “you’re fired”, siete licenziati.