Non aprite quel cassetto
Nel momento in cui chiudi la porta, esattamente come facevi molti, molti anni fa, provi un sottile senso di inquietudine. Hai vissuto in quella casa, e soprattutto in quella camera, per un tempo molto lungo; ci sei nato e cresciuto, a ben vedere. Appoggi il trolley, fai spazio sul comodino, ti siedi sul letto. Cerchi di capire cosa c’è che non va, e non ti ci vuole molto a capirlo: quella che era la tua stanza, il tuo microcosmo, adesso non è più una cosa tua. C’è il computer di tuo padre, i tuoi libri hanno cambiato casa, c’è lo split dell’impianto di condizionamento. Piccole cose, particolari, ma a volte la differenza sta proprio nei dettagli. Poi ti rendi conto che c’è qualcos’altro che non va, anche se ti ci vuole un po’ di tempo in più per avvertirlo prima, e capirlo poi. Non è che lì, tra quelle quattro mura, tu non ci sei più; è che ci sei ancora, e anzi: ci sei fin troppo. Apri un cassetto, e poi un altro. Non hanno buttato via nulla, le tue carte, le tue agende, le tue fotografie, i tuoi depliant, i tuoi curriculum. Ti siedi per terra, e apri il dannato vaso di Pandora. La prima cosa che ti colpisce è che c’è stato un tempo della tua vita in cui la gente scriveva. A mano. Disponi sul pavimento le lettere, le cartoline, i biglietti, e i fogli a righe o a quadretti piegati in quattro, stando attento a non romperli. Poi ti rendi conto che allora come oggi, un mese di distacco poteva significare provare un dolore quasi fisico, e che allora come oggi scrivere delle parole era l’unico modo che avevi – che tutti avevano – per mitigare quel dolore. Poi realizzi che la vita, in quel momento, era fatta di spartiacque che non potevi evitare, che il cambiamento era obbligato: finire le superiori e iniziare l’università, ricevere la cartolina e indossare la divisa, il nuovo che avanza. Hai nostalgia e compassione di te stesso, ti è finalmente chiaro che non sono mai cambiate le persone che si sono scavate un pezzo nel tuo cuore, o nella tua memoria: sono poche, e sono uguali fra loro. Poi arriva un momento in cui decidi che è meglio richiuderlo, quel vaso. Che è meglio ricacciare tutto in fondo al cassetto, smetterla di vergognarti di com’eri e smetterla di rimpiangerti, chiederti dove saranno oggi Davide e Renata, Franco e Paola e chi cazzo era Rosy, leggere con stupore un biglietto di ringraziamento di uno che ti dava ordini per dovere e che avrebbe potuto essere il tuo migliore amico. Finisce che qualche giorno dopo te ne vai portando con te solo una cartina geografica e un libretto pieno di timbri, e la strana sensazione che il tempo ti ha portato a stare meglio in una camera di albergo, piuttosto che in quella che una volta era casa tua.