Ieri ascoltavo un racconto di cosiddetta vita di provincia, fatto con il tagliente, sconsolato e scandalizzato sarcasmo di cui sono capaci solo i fuggiaschi che fanno i conti con l’amore e l’odio per le proprie radici e il proprio passato. Per un po’ ho assentito, poi ho iniziato a pensare che noi metropolitani in fondo ci illudiamo di essere tali, perché ognuno vive in un microcosmo che alla lunga è abbastanza ben definito – non da limiti geografici, bensì da persone, abitudini, luoghi, clichè, modi di pensare – e alla fine, senza rendercene conto (nè noi che ci siamo nati e cresciuti, nè gli altri che vi sono entrati venendo da fuori) viviamo nella nostra personale provincia, in tutto e per tutto identica a quella sbertucciata dai fuggiaschi e da noi che la sappiamo lunga. Così, tornato a casa ho provato compassione ed empatia per l’involontario coprotagonista della serata: noi – tanto chi aveva fatto il racconto quanto chi lo aveva ascoltato – non siamo nè diversi, nè migliori rispetto a lui; siamo tutti dei provinciali, siamo tutti, nessuno escluso, quel che ci illudiamo di non essere.