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    21/04/2010

    Il giorno in cui scoppiò la bomba

    Filed under: — JE6 @ 11:19

    Il giorno in cui scoppiò la bomba fu un giorno come tanti altri. Andai a scuola, e nella mia classe di quinta elementare girava l’aria dell’attesa del Natale che sarebbe arrivato meno di dieci giorni dopo. Eravamo bambini, e ci si parava di fronte un orizzonte fatto di regali e vacanze e impazienza perché tutto questo arrivasse, e in fretta.
    Non ricordo come trascorsi il pomeriggio del giorno in cui scoppiò la bomba. Forse feci dei compiti, o andai a catechismo, o giocai con Paolo, il mio migliore amico dell’epoca. In qualche modo, venne sera. Mia madre iniziò a preparare la cena, ed aspettammo il ritorno di mio padre. Carabiniere, in un’epoca in cui vestire la divisa era pericoloso anche se non facevi vita di strada; era pericoloso non per ciò che eri o facevi, ma solo e semplicemente per ciò che rappresentavi agli occhi di qualcuno. Carabiniere, come carabinieri e poliziotti erano – o erano stati – molti degli uomini delle famiglie contadine della Sardegna dalla quale venivano i miei genitori: un fratello di mio padre, il fratello e un cugino di mia madre, il figlio dei vicini di casa di nonna Enrichetta.
    Forse quella sera mio padre tardò a rientrare, e in casa calò quella sottile e fredda aria di timore che mia madre aveva imparato a conoscere e dalla quale mi proteggeva. O forse mio padre arrivò in orario, e tutto filò liscio e sereno come, per fortuna, accadeva quasi ogni giorno; non so, io ero probabilmente chiuso in camera con le mie macchinine, o un libro di Sandokan, o preso a registrare sul magnetofono della Geloso le mie telecronache immaginarie di non so quale partita – a pensarci, gli amici del cortile volevano che facessi le cronache delle loro partite di tennis, e chissà se era un riconoscimento della mia abilità oppure un modo per non avermi in mezzo alle scatole.
    Cenammo, anche la sera del giorno in cui scoppiò la bomba, parlando e ascoltando la radio. Radio Meneghina, scelta bizzarra di integrazione grazie alla quale oggi posso dialogare senza problemi con mio suocero ed entrare in una di quelle poche osterie di periferia nelle quali capisci di essere a Milano e non a Buffalo o ad Eindhoven. E ci spostammo sul divano, davanti al televisore.
    Non ricordo nemmeno le notizie principali del giorno in cui scoppiò la bomba. Forse c’era una crisi di governo in corso, forse si parlò di inflazione o di crisi petrolifera. Io ho un ricordo in bianco e nero, di quella sera: il bianco e nero della fototessera che, improvvisamente, riempì lo schermo. Capitava spesso, in quei giorni tetri e felici (in fondo, ero un bambino: avevo tutto ciò che mi serviva, una mamma e un papà che mi amavano e che amavo, amici, libri, fumetti, mi piaceva andare a scuola. Fuori sparavano e c’era poca benzina per le macchine, ma io ero un bambino ed ero felice. Perché non avrei dovuto esserlo?). Capitò anche quella sera, e come le altre volte vidi un viso sconosciuto, la parte superiore di una divisa, la camicia bianca e il nodo piccolo e stretto della cravatta di ordinanza. Ma quella sera, seppure senza vederne il volto, sentii distintamente il respiro di mia madre bloccarsi; e poi tornò, il respiro, abbastanza per farle dire, con una voce che non saprei definire se più spaventata o incredula: “Ma quello è Giovanni”.
    Giovanni. Il cugino carabiniere. Che aveva fatto sgomberare una piazza di Brescia perché c’era una borsa sospetta lasciata incustodita. Le persone che giravano da quelle parti si misero al sicuro; lui, non abbastanza. La borsa esplose, e Giovanni saltò in aria con lei.
    Lo speaker del telegiornale disse, credo, che Giovanni era ricoverato in gravissime condizioni; la bestia lo aveva colpito, ma non ucciso. Era il 16 dicembre del 1976, il giorno in cui scoppiò la bomba: io non sono più un bambino (purtroppo, o per fortuna: chissà) e forse dovrei raccontare la storia di Giovanni; o, forse, me ne dovrei liberare.