Le cose che siamo
Una decina di giorni fa abbiamo iniziato il trasloco degli uffici. Lo abbiamo fatto a pezzi, prima un gruppo, poi un altro, e un altro ancora, fino a entrare tutti nei nuovi ambienti. Ognuno ha preparato qualche scatolone, che si è poi trovato – a volte prima ancora della scrivania, in corrispondenza di una serie di strisce adesive piazzate sul pavimento che facevano molto rilevazione della scientifica – ad aprire per ricostruirsi la postazione lavorativa. Da quegli scatoloni sono usciti gli oggetti necessari – monitor, faldoni, tavole grafiche, hard disk, cataloghi – e poi quelli realmente indispensabili, e poco alla volta le scrivanie e gli armadi e gli scaffali sono tornati a essere quel che erano, microcosmi di abitudini e gusti stratificati e inscalfibili: uno Stetson, la foto del marito, un piccolo busto di Mao, un pupazzo, una Barbie nuda, una gruccia da lampada, un quadro, tre matrioske, una bandiera scozzese, e potrei andare avanti per altre dieci o quindici righe. Sono stato uno dei primi a entrare, e guardando il lento e inesorabile accumulo che riempiva questa specie di campo da calcio ricavato dentro una vecchia distilleria mi è venuto in mente il titolo di una delle mostre più belle che ho visto in questi anni, un paio d’anni fa alla Triennale di Milano: le cose che siamo, appunto. Perché alla fine la verità è questa, noi – in generale – non siamo delle cose, ma le cose sono certamente noi, siamo noi che le facciamo, siamo noi che le compriamo, siamo noi che ci identifichiamo con loro mettendoci dentro, appunto, noi stessi. Abbiamo tutti il paio di jeans dal quale non ci possiamo separare pur non essendo più in grado di indossarlo, per i chili accumulati o per la consunzione della tela: e quei jeans non sono diversi dalle mug piene di penne ormai asciutte, dai piccoli orologi, dalle lampade che quando ci sediamo alla nostra scrivania ce la fanno sentire, appunto, nostra. Quelle cose sono noi, quelle cose siamo noi: lo sono al punto che se attraversi l’ufficio quando ancora non è arrivato nessuno – il momento migliore della giornata – puoi descrivere coloro che entreranno dagli oggetti che vedi, o dalla loro assenza. E’ il lombrosianesimo delle cose, e funziona, funziona molto più spesso di quanto vorremmo.
Ora che ci penso, è stato proprio girando questi milleduecento metri quadri che vanno a riempirsi di ogni cosa che ho capito meglio perché posso stare minuti eterni a guardare un cartello arrugginito in un parcheggio, una vecchia porta di legno riverniciata di fresco, la silhouette dei tetti fuori dalla stazione di Rogoredo, e perché i ritratti delle persone mi piacciono ma non mi interessano – perché se guardi una persona vedi solo quella, se vedi una cosa vedi anche una persona.
July 31st, 2013 at 21:02
[…] se vedi una cosa vedi anche una persona.(Come spesso accade, Sir Squonk mi da involontariamente il la, e io non posso fare altro che andarci dietro.)Dunque, nella casa vecchia, avevo questo piatto […]
July 31st, 2013 at 21:08
[…] Squonk, “Le cose che siamo”: Perché alla fine la verità è questa, noi – in generale – non siamo delle cose, ma le cose sono certamente noi, siamo noi che le facciamo, siamo noi che le compriamo, siamo noi che ci identifichiamo con loro mettendoci dentro, appunto, noi stessi. Abbiamo tutti il paio di jeans dal quale non ci possiamo separare pur non essendo più in grado di indossarlo, per i chili accumulati o per la consunzione della tela: e quei jeans non sono diversi dalle mug piene di penne ormai asciutte, dai piccoli orologi, dalle lampade che quando ci sediamo alla nostra scrivania ce la fanno sentire, appunto, nostra. se lo dici tuCondivisioneGoogle +1FacebookLinkedInTwitterEmailMi piace:Mi piace Caricamento… Scritto da plus1gmt Pubblicato in alcuni aneddoti dal futuro degli altri […]