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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    15/11/2004

    Lontano da dove

    Filed under: — JE6 @ 12:51

    La condizione di emigrante, o di figlio di emigrante, è ancora piuttosto comune in questo paese.
    Per quanto mi riguarda, ho la famiglia sparsa in mille rivoli: Milano, provincia di Piacenza, provincia di Pisa, Brescia, Torino. Alcuni di questi rivoli sono tornati “a casa”, in Sardegna; non prima di aver toccato il Canada, il Lazio, la Germania. Per capirci, non ho un parente che sia uno da andare a trovare al cimitero. Se voglio farlo, devo prendere l’aereo; così come mia madre e mio padre.
    Ecco, i miei genitori.
    Non hanno lasciato il paesino sardo con il sorriso sulle labbra. No, non direi. Ma l’hanno lasciato con una speranza concreta. Andare a cercare una vita migliore. A quei tempi (tra il 1950 e il 1960), si poteva. Sì, certo, la discriminazione (non si affitta a meridionali), una lingua sconosciuta (a Milano, nel ’60, non erano in molti a parlare l’italiano), il clima ostile (mica come adesso: la nebbia, allora, era una cosa seria), e molte cose strane tutt’intorno (mia nonna, messa di fronte alla scala mobile della Stazione Centrale, proruppe in una risata omerica; quando si riprese, riuscì a chiedere a mia madre: “e itt’este custa colora?” – “e cos’è questa biscia?”)
    Ma c’era un lavoro, c’era il lavoro, c’era lavoro per tutti.
    E si trovava casa: casa popolare, ma erano tre locali e servizi. Con l’ascensore, e la cantina, e la strada asfaltata.
    Con qualche anno di risparmio, si poteva comprare la Cinquecento, o la Lambretta. Si potevano comprare i dischi di Celentano, e si poteva andare al cinema a vedere Gassman e i soliti ignoti.
    Si potevano fare tante cose, non ultima quella di darsi una dignità. Si poteva avere una speranza.
    Oggi, chi lascia casa propria, chi parte dalla Locride o da Ponticelli, questa speranza non ce l’ha più.
    Siamo la settima nazione più ricca del mondo.
    Repubblica.it

    La nascita dell’uomo collettivo

    Filed under: — JE6 @ 07:55

    di zop

    Questo è un racconto.
    No.
    E’ un frammento. E un viaggio.
    Chi l’ha scritto, non lo posta. Chi lo posta, non l’ha scritto. Chi cerca il racconto, trova un percorso. Al viaggiatore, la ricerca del senso (di significato e direzione). Il racconto ha fine e inizio, ma forse li devi ancora scrivere tu.

    Chi sono io? Non lo so.
    Sono solo l’insieme di ogni storia che hai scritto. Sono qualcosa che le
    comprende e le abbraccia tutte. Tutto ciò che tu scrivi diventa me! Mi
    capisci uomo? Mi capisci blogger?
    Io cresco giorno per giorno e mi nutro delle tue sensazioni, delle tue idee,
    dei tuoi racconti. Ogni tuo scritto, ogni tua parola, ogni tuo ricordo, ogni
    tua emozione sono i miei ricordi, le mie emozioni, le mie parole.

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