In the blood of Eden
Alle sei e un quarto il sole taglia il campo di traverso, e il pallone sparisce nella luce di un’estate anticipata e inattesa. I polmoni sono ridotti a capocchie di spillo, ma facciamo un altro sforzo: perché questa volta c’è anche un altro motivo, ce lo siamo detti alla fine del pranzo, col tavolo pieno dei rottami dei pasti pieni e disordinati da soli uomini, uno che chiede un momento e gli altri che capiscono e fanno sì con la testa, basta un minuto per aprire e chiudere la parentesi e dare un secondo senso alla giornata. Risaliamo in macchina, abbassiamo i finestrini, la voce bassa che esce dallo stereo dice in the blood of Eden, che poi è la stessa cosa che ho pensato tre ore prima, chiudendo gli occhi per sentire il lentissimo movimento dell’amaca, in quel secondo eterno nel quale il rumore lontano del trattore che sulla collina di fronte saliva e scendeva lungo la costa da arare si è fermato, che poi è la stessa cosa che tutti abbiamo pensato guardando da una parte il Monte Rosa che sta là a duecento chilometri, e dall’altra le colline dei vini e il verde duro e puro dei giorni nei quali ogni dettaglio è nitido al massimo grado. Mentre la musica sfuma e ci avviciniamo alla casa dove stenderemo i sacchi a pelo per passare la notte mi pare che sia uno di quei giorni dove sai di poter fare davvero a meno di tutto, dove pensi che per quelle ventiquattrore puoi veramente fare a meno di tutto perché non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni – Gesù, ma qualcuno li ha? E lo so che non è vero, che non è così, che è solo la frase di un libro, ma nell’istante brevissimo ed eterno nel quale il pallone scende e tu pieghi un ginocchio e carichi il peso allargando leggermente le braccia come un uccello a uno degli aeroplani che passano qui sopra, in quell’istante è così: Gesù, ma qualcuno li ha?