Il direttore
Il direttore non suda mai. Né d’inverno, quando il cappotto che lo protegge dal gelo umido di Milano diventa un sarcofago nero nell’aria appiccicosa del vagone della metropolitana, né d’estate quando le vecchie scatole di metallo sferragliano tra Rho e Sesto Marelli come carri bestiame nel Tennessee dell’Ottocento. Il direttore non si siede mai. Entra nel vagone, lo attraversa e trova il suo posto sul lato opposto a quello dell’entrata, dove resta in piedi, dritto come un fuso, fino al momento della discesa. Ogni volta lo guardo con un misto di stupore, ammirazione e invidia. E’ perfetto, ma non lo ostenta: le scarpe lucide ma non a specchio, le pieghe dritte della stiratura, gli abbinamenti opportuni dei colori, la rasatura quotidiana, i capelli della giusta lunghezza, le unghie ben curate. Alle nove del mattino il vagone scoppia di passeggeri, l’uno accatastato sull’altro, ma intorno a lui è come se ci fosse una sottilissima campana di vetro che lo separa dal resto degli umani, quasi che questi non gli si volessero avvicinare troppo per il timore di sporcarlo, di stropicciarlo. Ha sempre con sè un paio di quotidiani e altrettante riviste, ma ogni volta apre la ventiquattrore di cuoio nero con un gesto fluido e sicuro e ne estrae un libro – Roth, Borges, Calvino, Yourcenar. Quando il vagone si ferma per aprire le porte e far salire e scendere le migliaia di persone affannate che questa città vomita ogni due minuti lui alza la testa e si guarda intorno, e si capisce che lo fa con interesse, con partecipazione, come se fosse davvero uno di noi comuni mortali. Riesco a vederlo nel suo ufficio; non dev’essere uno che alza la voce, ma sono certo che lo ascoltano tutti, come si fa con coloro dei quali ci si fida, che hanno autorità perchè sono autorevoli. Chiede per favore, anche se non ne ha bisogno, discute ma non litiga, convince ma non ordina. Cerco di immaginare quale può essere la crepa nella sua vita, perché mi rifiuto di credere che non ne abbia una – la moglie che lo ha lasciato con un biglietto sul tavolo della cucina, la multinazionale dell’editoria per la quale lavora che chiude la filiale italiana, i sintomi precoci di una malattia incurabile, l’innamoramento impossibile per una segretaria di trent’anni, qualsiasi cosa. Ieri mattina, mentre il treno entrava nella stazione di Cordusio e lui si è avvicinato all’uscita chiedendo gentilmente ad una badante moldava “Scusi, scende?”, ho avuto la tentazione di alzarmi, accostarlo e dirgli “Andrà tutto bene”. Non so perché, ma sono certo che avrebbe capito, e che mi avrebbe detto di sì.