Living well is the best revenge
Qualche giorno fa sono tornato nell’azienda dove ho lavorato per sette anni. Ho fatto il giro dei tre piani, ho salutato, mi sono fatto offrire il caffè, ho fatto la riunione che mi era stata chiesta, ho preso appunti; quando quella persona mi ha chiesto “come va?” le ho risposto con un mezzo sorriso “bene, grazie” e ho cambiato discorso. Ero entrato sapendo bene cosa dire, avendo preparato a puntino quel mix di sufficienza e sarcasmo che mi viene tanto bene se mi impegno solo un po’; ma quando ho avuto l’occasione di usarlo ho lasciato perdere, semplicemente perché sapevo che non ne sarebbe valsa la pena, perché sapevo che dire loro la semplice verità – sto davvero bene, né più né meno – non mi avrebbe fatto stare meglio né avrebbe fatto loro capire quanto sono riusciti a rovinare un bell’ambiente e la vita di un buon numero di persone. Finita la riunione ho risalutato, ho soffiato a distanza un bacio alla centralinista che era impegnata al telefono e non poteva parlare, ho attraversato il parcheggio e sono salito in macchina – e per un caso della vita dopo un paio di minuti lo stereo ha passato questa canzone dei R.E.M., quella che dice che vivere bene è la miglior vendetta, che è la cosa che quasi nessuno capisce – nessuno capisce che vivere bene è una cosa di ciascuno, non comparabile a quella degli altri, nessuno capisce che non è una gara, nessuno capisce che quello dello specchio riflesso è un gioco da bambini che rovina anche quel poco di buono che hai. Molto simbolicamente, per andare verso il mio nuovo lavoro ho dovuto imboccare una rotonda: l’ho percorsa tutta, trecentosessanta gradi o giù di lì, e ho alzato il volume.