La legge della cover
Io ho questa idea, che viviamo un’epoca di portentosa sopravvalutazione della creatività personale (e pure di gruppo). Così basta avere un blog e scriverci sopra racconti intrisi di crepuscolare malinconia per credersi (e persino farsi considerare) scrittori, basta saper tenere in mano una chitarra ed esser capaci di distinguere un quattro quarti da un sette ottavi per credersi (e persino farsi considerare) musicisti, basta saper tenere in mano un microfono e non sbagliare più del trenta per cento di congiuntivi per credersi (e persino farsi considerare) intrattenitori di prim’ordine. E’ che bisognerebbe rivalutare un po’ la riproduzione della vera creatività, delle cose belle, almeno dove questo sia possibile: senza vergognarsene, senza ritenerla una cosa da poco, una cosa da sfigati; la musica, ad esempio, questo lo permette: si può prendere una sinfonia di Beethoven, un blues di Robert Johnson, un’ouverture degli Yes, un qualcosa (provate a definirlo, se ci riuscite) di Frank Zappa e rifarlo, praticamente identico all’originale, dando all’umanità che ti ascolta un piacere che ti dovrebbe ripagare mille volte della modesta castrazione delle tue velleità artistiche. Purtroppo questo è il gramo tempo storico dell’Io-a-tutti-i-costi, e sono pochi, troppo pochi quelli che riescono a capire che è molto meglio suonare alla grande bella roba altrui che rompere i coglioni al mondo con mediocre roba propria.