Camera dodici, letto A
Gli ospedali si assomigliano un po’ tutti, all’una di una domenica pomeriggio – i pazienti sotto le lenzuola che cercano di prendere sonno dopo il pranzo, quello che sta davanti alla macchinetta del caffè sapendo che sta per buttare via cinquanta centesimi, l’anziano signore elegantissimo con il borsalino e scarpe di cuoio, le due sorelle che bisbigliano parlando una lingua arcaica che nessuno può capire, il bambino annoiato che si aggrappa alla gamba del padre, le infermiere che portano in giro il carrello dei medicinali, quello che guarda fuori dalla finestra e poi prende il telefono e legge le notizie dal mondo reale e poi spegne il telefono perché lì dentro di realtà ce n’è più che a sufficienza, la figlia che arriva e riparte trafelata perché ha un impegno inderogabile con gli amici di famiglia, l’aria ferma e attutita di un momento di pausa, come se tutti stessero cercando di prendere o riprendere le forze, chi per tornare a casa, chi preparandosi a una notte di veglia, quella che manda messaggi, quello che chiede di abbassare la suoneria – i parenti sono pregati di uscire, l’orario di visita è terminato, e i parenti escono, e quando si trovano all’aria fredda e umida di un giorno piovoso di febbraio si passano una mano sul volto, e si sentono addosso come una patina che non viene via nemmeno dopo due docce, e vogliono solo mettersi su un divano e dormire un po’.