Greetings from Shanghai 2012 – At the Fairmont Peace
Tutto sommato, credo che il Bund sia la più bella via del mondo, almeno di quello che ho visto io, più di qualsiasi via italiana, più della Fifth Avenue, più del Royal Mile, più degli Champs Elysées. Non mi viene facile spiegare perché, se sono i palazzi coloniali di Zhongshan East Road o le centinaia di migliaia di persone che percorrono l’eterno lungofiume dalla statua del sindaco – quello che avevo scambiato per Mao, si vede che per avere la carica bisognava assomigliargli – verso l’Hotel Indigo e oltre ancora, se è la visione dello skyline di Pudong con i grattacieli altissimi e coloratissimi o se sono i galeoni illuminati come alberi di Natale che portano i turisti lungo lo Huangpu, se è tutto questo o altro ancora non lo so, e in fondo importa poco. So che mi piace camminarci, guardare le luci, passare alle spalle delle coppie che si scattano fotografie, fare no con la testa alle cento offerte di lady-sex-massage, fissare la nebbiolina di umidità e inquinamento fino a quando ho le stelline negli occhi. E so che mi piace tornare in Nanjing Road, tenere il marciapiede di destra ed entrare al Fairmont Peace Hotel, che viene dritto da un’altra epoca e un altro mondo, guardare le magnifiche foto in bianco e nero che mostrano Duke Ellington e Louis Armstrong e Benny Goodman viaggiare spesati dal Dipartimento di Stato in India e in Pakistan e in Iraq quando ancora si credeva che la musica e l’arte fossero qualcosa di cui essere orgogliosi al punto da usarle come strumenti di diplomazia, immaginare Churchill che scende dalle scalinate di marmo, mi piace fermarmi a fare quattro chiacchiere con la ragazza vestita di nero che mi chiede would you like to drink something sir, risponderle che sono qui proprio per quello, sorridere quando mi saluta con le sole parole di italiano che conosce – ciao bello -, mi piace entrare al bar del Fairmont Peace che una volta si chiamava Cathay Hotel e sedermi a un tavolo d’angolo e chiedere un Singapore Sling e ascoltare questo gruppo di anzianissimi jazzisti cinesi suonare qualsiasi cosa gli passi per la testa – l’altra sera han fatto persino un pezzo dei Beatles e gliel’ho perdonato perché questi sei uomini hanno l’immenso e salvifico potere di chiudere il resto del mondo fuori dalla sala fatta di legni scuri e vetri antichi, e tutti aspettano il momento in cui i fiati si alzano in piedi e suonano le percussioni e ti pare di vedere il maestro di Karate Kid, solo con le maracas in mano, e giri la testa verso l’entrata, e ti dici adesso entra la Hayworth e allora sì che muoio felice.