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    09/06/2004

    Il grande cugggino – Again

    Filed under: — JE6 @ 08:15

    Caro Marco,
    mi chiedi qualche chiarimento sulla questione del grande cuggino, e provo a farlo.
    E’ necessaria una premessa: quando si parla di tutela della privacy, ci si riferisce ad una quantità straordinaria di situazioni e problemi diversi. Io, per comodità e per esperienza professionale, cercherò di parlarti di come la legislazione italiana impatta sulla comunicazione commerciale, altrimenti detta pubblicità (o, come dice il mi’ babbo, la reclame). Ma il discorso è lungo: se vuoi, lo potremo affrontare in più post, se avrai la bontà di seguirmi, e chissà, anche di farmi delle domande.

    Allora, la pubblicità si distingue in due grandi famiglie: quella “mass” e quella “one to one“. La prima è quella degli spot televisivi, dei manifesti 6×3 che adornano le nostre strade, delle pagine nei magazine. La seconda, invece, è quella del direct mailing, del telemarketing, dell’e-mail marketing: non si rivolge a milioni di persone, ma a gruppi ristretti, ben definiti in funzione di caratteristiche socio-demografiche, psicologiche, comportamentali. E’ una comunicazione diretta, che ti chiama per nome e ti fa un’offerta (qualunque essa sia) che cerca di essere tarata su misura delle tue caratteristiche personali.
    Come è facile capire, questa è una comunicazione che sta in piedi unicamente grazie al possesso dei cosiddetti “dati personali”: nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, e, a seguire, età, titolo di studio, professione, reddito, abitudini di acquisto e cose di questo genere.
    Dove si prendono questi dati? Beh, le fonti sono – o meglio, potrebbero essere – moltissime: gli elenchi telefonici, gli annuari di categoria, gli albi professionali, le liste elettorali, i database di abbonati a riviste, e qualunque altra lista ti possa venire in mente. Dopo di che, incroci, segmenti, applichi tecniche statistiche di clusterizzazione.
    Il tutto, per consentire ad un’azienda (qualunque: Fiat oppure Unicef, non fa nessuna differenza) di inviarti un messaggio con una proposta.
    Tutto chiaro? Sì? Bene.
    Ora, il punto è: è lecito che un’azienda (ripeto: una qualunque) usi questi dati per inviarti comunicazioni commerciali? Secondo la nostra legge, è lecito solo se tu – generico “consumatore” – hai dato una esplicita autorizzazione a farlo. Sembra ragionevole, no?
    Però: mettiti nei panni di un’azienda (ancora: una qualunque) che si trova di fronte ad un mercato grande quanto il paese nel quale opera. Questo significa dover chiedere il permesso (in gergo tecnico e legale: il consenso) a non meno di sedici-diciassette milioni di famiglie italiane. Puoi immaginare i costi? Sì, vero?
    Bene, è venuto il momento di introdurre il concetto di “bilanciamento degli interessi”. Che, in parole semplici, significa: il singolo cittadino ha tanti diritti di non essere disturbato, quanti ne ha l’azienda di inviare le sue comunicazioni. Imporre per legge l’obbligatorietà del consenso esplicito e preventivo significa non rispettare questo principio, credo che non ci sia nemmeno bisogno di grandi spiegazioni.
    Concludo: che differenza fa un messaggio con richiesta di opt-in ed un messaggio con possibilità di opt-out? Nessuna. Se vige il principio dell’opt-out, come nella gran parte dei paesi occidentali, l’azienda ti invia un messaggio, tu non gradisci, gli mandi una richiesta di cancellazione, l’azienda mette un flag sul record del tuo nome e non ti utilizzerà mai più, pena sanzioni veramente pesanti. Se non richiedi la cancellazione, significa che, tutto sommato, ricevere quel messaggio non ti disturba veramente.
    Insomma, mi ripeto: la richiesta di opt-in è talmente onerosa, in termini di rapporto tra consensi ricevuti e investimento necessario a riceverli, da rendere estremamente difficile la comunicazione diretta, quella che passa attraverso il nome generico di direct marketing. Con il bel risultato che il nostro paese, dove l’approccio opt-in è reso obbligatorio dai luddisti che lavorano al Garante, è quello con la maggiore sproporzione tra investimenti in comunicazione pubblicitaria “mass” e investimenti in comunicazione pubblicitaria diretta. Qualcuno pensa che il professor Rodotà andrebbe nominato senatore a vita. Non ci fosse da piangere, sarebbe una splendida battuta.

    10 Responses to “Il grande cugggino – Again”

    1. marco Says:

      Grazie Squonk.
      Questa sera leggo per bene e mi sa proprio tornero’ da lei con qualche domanda.

    2. b.georg Says:

      nel libro di Franzen “Come stare soli” (peraltro molto gradevole) c’è un capitolo divertente sulla strampalata mitologia della privacy che ti consiglio. Riguardo a ciò che dici, do un parere da ignorante osservatore, se dico troppe cazzate non ti arrabbiare: probabilmente la pubblicità uno a uno rispecchia la necessità non solo commerciale ma anche “filosofica”, se mi passi il termine, di un rapporto diverso tra produzione e mercato, nel quale la prima riprende il suo ruolo di “servizio” e il secondo il suo ruolo di “guida e finalità” (il che non solo una vulgata marxista ma anche solide esperienze hanno in passato alquanto messo in dubbio). La cosa succede meglio sul web, ad esempio osservando certe dinamiche di feed-back in aziende come e-bay o studiando il ruolo non passivo ma orientante del mercato in altre come amazon. Probabilmente sul web è più facile, per motivi strutturali, per le aziende “concedere fette di sovranità” (in fondo stiamo solo parlando di prodotto, non di processi di lavoro, sui quali aprire un capitolo sarebbe doveroso ma alquanto penoso…) e quindi anche la loro comunicazione è meglio accettata e compresa da chi non si percepisce più come consumatore ma quasi come coautore della “produzione” (l’integrazione del mercato nella produzione in direzione della singolarizzazione delle risposte alle esigenze è il terreno su cui tutto questo si muove, credo) . Viceversa quando l’invasività della comunicazione personale non viene percepita come dotata di adeguate contropartite (insomma, perché mai fiat dovrebbe rompermi le balle in una pubblicità uno a uno per dirmi le stesse cose che mi dice sui cartelloni?) scatta la reazione negativa. Sulla sensatezza della norma italiana non mi esprimo, per evidente ignoranza specifica.

    3. Squonk Says:

      Caro Poeta, lei coglie quella che dovrebbe essere l’essenza del marketing: ascoltare il mercato, per poi parlare al mercato stesso. Solo in questo modo (e la questione, come si può ben immaginare, è di principio, molto più che di tecnica) si può veramente dare al mercato, a ciascun singolo consumatore, ciò che il singolo consumatore davvero vuole – nei limiti concessi e imposti dalle strutture di produzione.
      Ma, se ci pensiamo bene, lei sta descrivendo un passo di un processo di relazione tra azienda e cliente (che diventa, paradossalmente ma non troppo, “fornitore”: di idee, spunti, bisogni) già iniziato, già “in progress”. Il punto è: come fa un’azienda a entrare in contatto con il suo potenziale cliente, per poi provare a soddisfarne gusti ed esigenze? Con la comunicazione, non ci sono altre strade.
      Va da sè che sono le aziende a dover provare ad entrare in contatto con i clienti, per alcuni motivi molto semplici: perchè è nel loro interesse, ça va sans dire; e perchè lo stadio iniziale del rapporto di comunicazione – benchè bidirezionale – è sempre di tipo “uno a molti”: solo in un secondo momento questo rapporto si può trasformare in un rapporto “uno a uno”. Ecco, la legge italiana rende difficilissimo il primo passo, questo è il vero problema.
      Chiudo commentando la sua ultima considerazione: è proprio la scarsa disponibilità di dati personali che fa sì che lei riceva via posta(o via e-mail, o via fax) lo stesso messaggio che vede sui cartelloni 6×3; se questi dati fossero maggiormente disponibili, lei riceverebbe offerte più mirate, e quindi diverse da quelle veicolate in modo “mass”. Da ultimo, questo avrebbe un altro effetto, non secondario: in giro, ci sarebbe meno pubblicità “mass”, come dimostrano tutti i dati relativi agli investimenti pubblicitari nei paesi dove la circolazione dei dati personali è molto più libera rispetto all’Italia. Insomma, lei avrebbe più scelta, e si sorbirebbe meno spot. Lo spieghi a Rodotà, se ci riesce.

    4. b.georg Says:

      Perdonami, vado un po’ OT (sai che la deriva è la mia figura preferita). Il punto è: se io fornisco – paradossalmente ma non troppo – alla produzione idee, spunti bisogni (in termini più generali: se il mio tempo di lavoro e il mio tempo di vita non sono più rigorosamente separati, ma in certo senso “lavoro” anche consumando), come mai non sono pagato per questo? Cioè, come posso essere pagato per una quota (il mio lavoro ufficiale) che di fatto non è che un’astrazione della mia “giornata sociale”, la quale è tutta produttiva? (e non potrebbe essere altrimenti, dato che la produzione sempre più assorbe elementi linguistici, e per sopravvivere al livello attuale – in cui deve rispondere alle “mie” esigenze, e non ad esigenzea astratte – deve saper usare tutte le capacità di chi lavora, specialmente quelle che si formano fuori dall’orario di lavoro in termini di gusti, sensibilità, idee, “contesto di senso” che si contribuisce a costruire ecc). Come posso riottenere indietro il mio contributo in termini di servizi di qualche tipo? Lo so, sembra una provocazione. Ma quando tu parli di processo di relazione tra produzione e mercato “in progress”, bisogna provare ad estrarre delle tendenze. Una possibile lettura della tendenza è quella che la individua nella socializzazione dei bisogni e dei desideri (non in senso “socialista”, semmai post-socialista). Da questo punto di vista la “ricchezza sociale” viene concettualmente ricondotta a bene comune, pur nella diversificazione tecnica e nelle legittimazione dei meccanismi del suo sviuppo. Secondo alcuni questa è anche una possibile direzione della ristrutturazione e singolarizzazione del welfare.

    5. Squonk Says:

      Cerco di non avventurarmi troppo dandoti una risposta per la quale non sono sufficientemente attrezzato.
      Molto semplicemente (o forse, troppo semplicisticamente), direi che se il sistema funzionasse più o meno come l’ho descritto, tu saresti “pagato” ricevendo esattamente quello che vuoi, e non quello che ti viene imposto. Così come succede quando ti rivolgi ad un artigiano, e gli spieghi che quel mobile lo vuoi di quella forma particolare e di quel materiale particolare e gli fai persino un disegno. Lui ti ascolta ed esegue, mettendoci anche del suo: ma buona parte del lavoro l’hai fatta tu. Paghi, retribuendo il suo lavoro, la sua capacità di farlo più o meno bene. E vieni ripagato con il mobile che volevi.
      Certo, suona tutto un po’ come “libro dei sogni”, mi rendo conto. Ma credo che quella può e deve essere la direzione da seguire; e, detto questo, mi pare che il processo sottostante non sia di “socializzazione”, ma di ulteriore “individualizzazione”, se capisco bene ciò che vuoi dire.

    6. palmasco Says:

      Finalmente una prospettiva intelligente e positiva su quanto ci sta capitando negli ultimi decenni, finalmente un’apertura di senso intelligente sul fenomeno pubblicitario e di comunicazione, in questo post, e anche nel successivo dialogo nei commenti.

      Non importa che io sia daccordo o no con quanto è stato scritto, penso che sia onesto dire che dopo averlo letto, non si può più guardare come prima alle cose di cui si parla.
      Mi rendo conto di essere un po’ enfatico, ma non vedo come altro esprimere le mie sensazioni.

      Vedo la tua visione, squonk, la comprendo anche se non mi sembrava di approvarla, e resisto anche, mi sembra ancora di potere non essere daccordo.
      Per esempio dove collochiamo la circostanza che a New York, nel cuore della libertà di comunicazione, quindi nel fulcro del sistema del consumatore come co-autore del prodotto, se cerchi un qualsiasi oggetto che sia appena fuori dallo standard, puoi morire?
      Lo dico in base all’esperienza personale.

      Allora capisco perché mi piace il tuo discorso, perché mi piacerebbe: perché è un’utopia, credo.
      Nel senso che il vero prodotto, dal punto di vista delle grandi aziende che fanno il mezzo e il messaggio della comunicazione, non è il prodotto giusto per il consumatore, ma il consumatore soddisfatto, da rendere tale con la comunicazione, visto che col prodotto è impossibile farlo.

      Una prova dell’impossibilità?
      Guarda l’evoluzione dell’automobile.
      Non vedi come sia diventata con ogni evidenza il modello delle catene produttive, più che il modello dei sogni dell’utente?
      Da qui in poi si sviluppa la comunicazione.
      IHMO

    7. b.georg Says:

      rispondo come posso al tuo ultimo commento, Squonk, cercando così di spiegarmi. Dici: ottieni il prodotto che rispecchia esattamente le tue esigenze. Questo è chiaro e a dire il vero non così utopico (“basterebbe”, si fa per dire, che le aziende e gli utenti, ad esempio, fossero saldamente in rete e ci fossero “interfacce” potenti e strutture di produzione flessibili). Però a questo livello il contributo “esterno” non va oltre la commissione, la semplice scelta da un pannello di opzioni anche smisurato (già gli esempi di e-bay – soprattutto – e di amazon dicono di più, anche se in campi limitati e ristretti)
      Ciò cui forse allude il “progress” di prima (e qui torno OT e utopico) è la decisione su “cosa produrre”, e non solo di che colore dipingerlo. L’implicazione del tempo di vita nel tempo di lavoro da una parte, e la deriva “linguistIca” della produzione, dove sempre più si coordinano sistemi di simboli, può forse alludere a un potenzialità implicita, che è quella, appunto, della “socializzazione dei desideri”, cioè del fatto che la macchina produttiva abbia come scopo di realizzare le potenzialità singolari, e non di deprimerle o asservirle e non solo in termini di prodotto, ma di “contesto di senso e di vita” di cui il prodotto non è che, appunto, un prodotto. (nb: qui singolare non è in opposizione a plurale, come invece accade con individuo-massa).
      Per questo, come ho accennato, tale discorso è monco se non tiene conto degli altri due corni: uno è il “come produrre” (cioè la ridefinizione del “potere” di fabbrica – e fabbrica è anche un ufficio marketing o una redazione di un giornale – e del modo in cui è gestito, spesso opposto alla direzione dello sviluppo delle potenzialità), dall’altra l’uso della “ricchezza sociale”, nuovamente percepita come bene comune (e quindi il problema di un nuovo modello di welfare singolarizzato e universale – Beppe parla qui di “reddito universale di cittadinanza”, e altri con lui, ma il tema è complesso e controverso).

      cavoli, sto davvero prendendo la tangente e anche la tangenziale, sorry

    8. Massimo Morelli Says:

      Mi sto occupando di privacy anch’io, e mi pare che la legge sia sbagliata per un problema di incentivi.
      Provo a spiegarmi: la legge si poteva fare meno restrittiva abbastanza facilmente (solo un esempio fra tanti: considerando non personali i dati delle persone giuridiche).
      Ma.
      Per l’ufficio del garante, è meglio una legge snella a cui tutti si adeguano e non ci pensano più o un blob complicatissimo che ti costringe (volente o nolente) a essere sempre a un passo dall’illegalità?

      PS: lo sapete vero che tutte le aziende d’italia con dipendenti devono fare il famigerato Documento Programmatico sulla Sicurezza? Entro il trenta del mese ragazzi, non spingete.

    9. Squonk Says:

      BG, faccio fatica a seguirti, mi rendo conto che il mio background di studi ed esperienze è sufficientemente diverso dal tuo da rendermi problematica la comprensione persino dei singoli termini.
      Comunque: di fatto, la decisione relativa a “cosa” produrre, in ultima istanza, non può che spettare al produttore. E’ un discorso di mero buon senso. E costui produce se e solo se ci sono – o pensa che ci saranno – abbastanza clienti i cui desideri potranno essere soddisfatti da quel prodotto o servizio. L’acronimo magico è ROI: Return On Investment, ritorno sull’investimento. Dice tutto, no? In questo scenario, sono d’accordo con te: il “come” produrre assume una rilevanza fondamentale; ma, ancora: se il rapporto tra flessibilità della produzione (intesa come capacità di produrre ciò che viene chiesto senza, o con pochissimi, adattamenti) e investimenti necessari per ottenere quella flessibilità è direttamente proporzionale, il discorso è chiuso in partenza; ergo, si torna ai tempi di Henry Ford e del suo Modello T: o questa minestra, o salti dalla finestra.
      Se, invece, il futuro ci porterà un rapporto flessibilità/investimenti inversamente proporzionale, allora lo scenario che abbiamo presuntuosamente disegnato non sarà più tanto utopico. Ne parlerò a mia figlia, uno di questi giorni.

      Palmasco: ti faccio notare quello che, secondo me, è un errore concettuale: la libertà di comunicazione non implica che il consumatore sia co-autore del prodotto, tutt’altro. E a questo aggiungo che le aziende veramente buone, solide, affidabili, continuano ad essere quelle che fanno buoni prodotti e/o offrono buoni servizi: con la comunicazione mi puoi convincere una volta a comprare una “sòla”, non certo a ricomprarla.

      Max: hai ragione. Ti assicuro – e, credimi, non è il solito modo di dire – che in Italia non esiste UNA sola azienda in regola al 100% con il d. lgs 196/03, erede della famigerata 675/96. Non ce n’è UNA. Il che, da solo, dimostra che la legge è sbagliata in sè.

    10. marco Says:

      Scusate la domanda da neofita, ma quel che non funziona della legge è l’impianto, la sua concretizzazione, o tutti e due ?
      Il papiro di cui parla Massimo mi sembra un bell’esempio di legislazione borbonica, ma da lì a dire che l’opt-in è una boiata a me mancano dei passaggi intermedi.

      Per quel che vale, e a titolo personale, penso vivrei meglio in un mondo con l’opt-in che in uno con l’opt-out.
      Ho infatti un approccio vetero-pauperistico nei confronti della maggior parte degli oggetti e dei servizi che mi vengono proposti per cui:
      a)Spesso mi sembra di essere circondato da troppo e non da troppo poco, e quasi mai sento il bisogno di qualcuno che mi offra qualcosa di più;
      b)Se una cosa mi interessa davvero, alzo le chiappe e me la cerco.
      Questo penso sia in soldoni lo spirito dell’opt-in.

      Sorry, so che queste affermazioni sono semplificatorie e probabilmente sono un cane in chiesa per chi si occupa di marketing, però al momento è quel che penso.
      Alla peggio, prendetele come un pretesto per darmi ulteriori lezioni di marketing for dummies, che gradirò.

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