Greetings from Leeds ’09 – Our planet lives in the vacuum of infinity
Ci sediamo all’Horse and Trumpet. Fuori fa freddo, tira vento e abbiamo voglia di sederci nel caldo di un pub per mangiare e berci una pinta di Tetley’s. Facciamo quattro chiacchiere, guardiamo la coppia che abbiamo alle spalle, la tintura casalinga e antica di un uomo dalle dita deformate dall’artrosi, il ragazzo che ci serve pieno di spilli come un riccio, la moquette arabescata. Racconto al mio collega della sera di qualche anno fa, quando nello stesso pub incontrammo una signora che lavorava al teatro dell’Opera di Leeds e aveva imparato l’italiano ascoltando Verdi, ma tengo per me il racconto di una telefonata che in quella stessa sera chiuse un periodo orribile perché non ho voglia di riportare a galla certi ricordi. Entra un uomo, sulla cinquantina o forse poco più. Va al banco, chiede una pinta, la paga, si gira verso di noi – may I join you, gentlemen? – e noi gli facciamo cenno con la testa sì, certo, si accomodi. Si siede, ci stringe forte la mano, ci dice che è stato educato a conoscere gente nuova, ce lo ripete tre, quattro, cinque volte. Lo ascoltiamo senza interromperlo, sommersi dal profluvio di parole e affascinati dal movimento costante delle sue mani da pianista, le dita lunghe dalle unghie ben curate che fluttuano davanti ai nostri occhi. We have to take care about our words, ci dice serio, otherwise it will be all over, e questo all over lo ripete un numero infinito di volte; a un certo punto mi guarda negli occhi – Remember, our planet lives in the vacuum of infinity – e io, stupido che sono, non riesco a cogliere la pienezza e la poeticità di quell’affermazione, benchè fatta da un folle, perché a me la parola vacuum fa venire in mente gli aspiratori della Folletto, vai a capire cos’ho in testa. Poi il pianista del vuoto cosmico si ferma, ci fissa e ci chiede serio cosa ne pensiamo di tutto ciò che ha detto durante l’ultimo quarto d’ora, quando anche i due ubriachi che ciondolavano sul marciapiede proprio dall’altra parte della finestra accanto alla quale eravamo seduti non hanno più retto al freddo e se ne sono andati. Noi non sappiamo cos’altro dirgli che è difficile non essere d’accordo e intanto ci alziamo e lui si arrabbia, ma lo fa con dignità, in modo molto british, gli allungo la mano per salutarlo e lui la rifiuta, fa un gesto sdegnoso come se tutto il disprezzo del mondo nei confronti di noi poveri di spirito si fosse concentrato in quella mano lunghissima e bianca – goodbye, ci dice secco e amareggiato – e noi usciamo roteando le pupille e sghignazzando, ma a me un filo di tristezza è rimasto, come per un’occasione persa, qualunque questa fosse.