L’uomo al tavolino di legno
Lo guardiamo sedersi mentre ci portano le birre. Diciamo ancora quattro parole, poi, cercando di non dare troppo nell’occhio, smettiamo di parlare e lo osserviamo, perché spicca tra noi vestiti di jeans e giubbotti invernali, reduci da spettacoli teatrali di periferia e uscite di colleghi e partite di calcetto. Avrà sessant’anni, eppure non stona in questo pub irlandese; è uno di quegli uomini che si trova a suo agio in qualunque posto, da ragazzo è stato sicuramente uno sportivo e uno che ai suoi tempi avrebbero detto uno scapestrato, sembra di vederlo su una spider, figlio della vecchia borghesia milanese, quella per la quale valeva la pena venire a vivere in questa città prima che venisse invasa dalla rucola e dagli stilisti. Guardi i suoi capelli grigi arruffati con cura, i baffi folti ben curati, il maglione vecchio che sembra comprato solo due ore fa, il colletto della camicia che sporge il giusto, i pantaloni sportivi che cadono come un fuso su scarpe che sembrano un whisky di sedici anni, e dietro ci vedi libri, e studi, e amici, e viaggi, li vedi da come accavalla la gamba destra sul ginocchio sinistro, da come appoggia il palmare sul tavolino rotondo di legno scuro e non passa il tempo a guardare se si accende la luce rossa di un nuovo messaggio. Non riusciamo nemmeno a essere invidiosi, siamo solo ammirati come capita di essere davanti all’eleganza vera, quella che non si fa notare, quella che sta dentro le persone e non nei loro abiti o nei loro orologi. Quando ci alziamo abbiamo la tentazione di salutarlo, ma sarebbe stupido, non lo conosciamo, lo disturberemmo mentre sta finendo il suo bicchiere, sono cose che non si fanno. Usciamo, speriamo che non siano passati i vigili urbani.