Come un film in bianco e nero visto alla tivù
Percorro la litoranea cercando di intravvedere il mare, ma è tutto talmente buio che l’unica sua traccia è la lunga striscia blu che si muove sul navigatore della macchina. Pensioni, tre stelle, alberghi meublé, ristoranti chiusi, una farmacia, parcheggi vuoti, i negozi di souvenir con le serrande abbassate. Il mare d’inverno. Lascio in camera la valigia della prossima settimana, ghiaccio sul balcone in cerca di un segnale abbastanza forte per fare due telefonate, mi rimetto in macchina. Il centro. Ci dev’essere qualcosa in centro, mi dico. Salgo sulla collina, parcheggio, guardo il tabellone metallico dei necrologi – è mancato all’affetto dei suoi cari – e le finestre appannate di una palestra, da una pasticceria esce una coppia con un bambino piccolo che piange. Dalla balaustra si vede il mare, là sotto, e un sacchetto di plastica, o forse un palloncino, incastrato tra i rami di un albero. Aspetto una chiamata, o un messaggio, e lo faccio invano. Torno sulla litoranea. L’osteria potrebbe essere un ristorante cinese della periferia di Milano, spaghetti alle vongole e Enrico Papi su Italia 1. Arriva la telefonata, si rimanda tutto a domani mattina. Attraverso la strada, c’è un cancello aperto. Vedo finalmente le onde, che non sono quelle di Ruggeri ma quelle di De Gregori – dal profondo del nero del mare -, c’è un vento gelido che spazza la spiaggia, ballano le foglie delle palme, qualcuno chiude un’imposta. La ragazza della reception sorride – ha mangiato bene? -, io chiedo un caffè, faccia buon riposo, ci vediamo domani mattina.