Henné
Sono fermo all’incrocio quando la vedo arrivare. Piccola, elegante nel suo vestito che arriva a coprirla fino ai piedi, di un giallo tenue che sembra fatto apposta per questo giorno di primavera, e il velo che le cinge il volto – il nodo sotto il mento e l’ovale del viso disegnato dal tessuto. Cammina a piccoli passi, tenendo sotto braccio l’uomo alto e giovane che la accompagna. Madre e figlio, penso. Guardo i lineamenti, cerco di indovinare da dove vengono. Mi ricordo di certi paesini attraversati salendo lungo le strade dei monti dell’Atlante. Marocco, mi dico; ma chissà, per quel che ne so potrebbe essere Algeria, o Tunisia, o Egitto, chissà. Mi pare di vedere la mia nonna materna, che qui, sul marciapiede di via Diomede che costeggia il Lido di Milano sarebbe stata altrettanto straniera – un’altra lingua, un’altra storia, un’altra faccia. Eppure non sembra smarrita, forse rassicurata dalla presenza dell’uomo, forse perché alla fine ci si acconcia a tutto – ci si deve acconciare a tutto. Non so perché, ma mentre ingrano la prima mi dico che gli unici tatuaggi che mi siano mai piaciuti sono quelli eleganti e finissimi fatti con l’henné, quelli che vedevo sulle caviglie delle donne berbere nella Djemaa el Fnaa di Marrakech, così diversi da quelli implacabilmente pacchiani che portano gli e soprattutto le occidentali. Mi chiedo se ne ha uno anche lei.