Una storia piccola, se di sinistra non so
Io sono un pezzo dell’ingranaggio. Una ruota dentata, mossa da una ruota più grossa e che muove ruote più piccole. Ci sono delle aziende grandi che danno lavoro ad aziende medie come quella che mi paga lo stipendio alla fine del mese, e queste aziende medie danno lavoro ad aziende più piccole, e a persone. Ognuno tira la corda per quanto gli è possibile, ognuno fa la faccia cattiva, ognuno prova a raccogliere il maggior numero di briciole tra le poche che questa crisi fa cadere dalla tovaglia. Così, per duecentoventi giorni lavorativi ogni anno, e per gli altri cento dei weekend che nominalmente fanno da cuscinetto di riposo, e così via: perché ci sono periodi nei quali quel pensiero non ti lascia mai. Quale pensiero? Quello di riuscire a tenere in piedi la baracca: far quadrare i conti, risparmiare un due per cento qui, spostare un termine di pagamento di là, controllare i margini, prestare un’attenzione maniacale e prosciugante a ogni singolo microscopico dettaglio.
Nel penultimo pomeriggio lavorativo dell’anno (penultimo solo sulla carta: ma questo è un altro discorso) inizi a mandare le comunicazioni che ti toccano: a tarda sera, tra le risposte che arrivano ce n’è una, arriva da una donna che hai assunto perché “fa parte del package”; “quando ho letto che mi avresti rinnovato il contratto mi sono sentita sopraffatta. Grazie, questo è il regalo di Natale che potevo solo sperare di ricevere“. Vorresti risponderle, dirle che quelle poche parole non solo ti hanno fatto toccare con mano quanto il lavoro sia importante (in fondo, dovresti saperlo perché lo vivi sulla tua pelle ogni giorno: eppure), che forse tutti gli sforzi di quest’anno tremendo sono ricompensati dalle sue due righe di ringraziamento. Poi riguardi le tabelle dei costi e dei ricavi e dei margini, ripensi ai contratti che hai disdetto meno di otto ore prima. Lavoratori di tutto il mondo, unitevi. Già.