Chissà dove sei, chissà come stai
Ieri sera sono entrato in quell’ospedale. Quello dal quale tu non sei riuscito a uscire. Non ci mettevo piede da tre anni, da quell’inverno passato in una sala d’aspetto, sperando che un medico, uno qualsiasi, venisse a dirci che le cose andavano meglio. Ne hanno rifatto dei pezzi interi, adesso sembra un centro commerciale, mentre sei in coda agli sportelli puoi andare in libreria, puoi comprarti un telefono o mezzo chilo di torrone, o uno shampoo da erboristeria. C’è anche uno di quei negozi che vende intimo femminile, attraversi i reparti e vedi donne che arrancano nelle loro vestaglie di flanella custodite in un cassetto perché non si sa mai, ma qui ti rifai la vista con i reggiseni e le mutandine da pornostar. Quando sono uscito faceva freddo, non tanto, non come tre anni fa, ma abbastanza da affondare le mani nelle tasche del giubbotto e vedere la condensa uscire dalla bocca, ho guardato verso sinistra, ho trovato con gli occhi quel lungo corridoio porticato che portava al tuo reparto – non mi sembra che lì ci abbiano messo mano: quello è l’ospedale che ricordavo, quello che sembra appena uscito da un bombardamento, con i muri scrostati e le luci fioche e sporche – e ho sentito la tua mancanza, eri una delle pochissime persone al mondo che mi faceva ridere anche quando raccontava dei suoi guai, non è la mancanza di un pezzo di gioventù, è proprio la mancanza di una parte di me, di noi, di quel che eravamo da uomini con i capelli più radi e bianchi. Chissà dove sei, chissà come stai.