Gruesse aus Berlin – 11: Dialogo su Berlino
D’un dialogo a distanza tra Strel’ e me. E il dialogo avviene tra la periferia di Milano e la provincia di Pisa, e questo va detto.
E si parlava di comunismo col Sir che era a Berlino e io no e mi raccontava quel che vedeva a colpi di cinque-sei righe belle condensate di occhi impastati al cuore e dicendomi all’inizio:
“Delle molte cose viste in queste poche ore, quella che più mi ha colpito è il sacrario dove sono sepolti 2500 soldati sovietici, sulla Strasse des 17 Juni. Le scritte in cirillico, il grande simbolo di falce e martello, il prato curato, le mura pulite, due turisti americani che guardano, guardano ancora e scattano un paio di foto: il comunismo sarà anche stato sconfitto dalla storia, ma qui sembra che, per lo meno, gli portino rispetto.” (Squonk)
Che poi, Sir, eran come gli stessi soldatini che l’America mandava a macellarsi sulle spiagge della Normandia per ingrassare Wall Street e morire per Danzica e per noi e che cinquant’anni dopo si accorgevan d’esser ricordati e onorati da un presidente che s’approfittava del loro sacrificio per nascondere male i propri interessi che son diversi nella forma da quelli che il comunismo di guerra imponeva/chiedeva ai russi tutti per liberare dal nazismo la povera europa che s’illudeva di trovare libertà diverse e migliori. (Strel’)
Io non lo so, se le cose stanno e stavano così. Nelle guerre si mischiano ideali e interessi, e poi forse le intenzioni contano solo fino ad un certo punto: quel che ci tocca è guardare cosa si fa e come lo si fa, dato che il perchè è troppo spesso insondabile. Ecco, Strel’: io non penso che si possa e si debba giudicare ciò che è stato fatto sessant’anni fa avendo di fronte a sè le facce di Bush e Putin. Ma non sono uno storico, e magari mi sbaglio. (Squonk)
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“Ci sono luoghi, città dove le parole sembrano mostrare il loro vero significato.
Al centro della Strasse des 17 Juni, quella enorme, lunghissima via alberata che parte dalla Porta di Brandeburgo, costeggia il Tiergarten e arriva alla Statua della Vittoria, si trova la statua di un uomo che grida al cielo. E sotto, incise nella pietra della stele, si leggono le parole del Petrarca: “Io vado per il mondo, e grido: libertà, libertà, libertà” (Squonk)
La peggior cosa, Sir, che possa essere accaduto al comunismo è d’aver creduto troppo in se stesso e d’essersi ingessato in un pilastro di cemento che dimenticava gli uomini perchè s’era reso conto del potere che aveva in mano e per la solita ragione impediva d’andare per il mondo, obbligando i suoi cittadini a recitare ad alta voce: “la libertà è qui, la libertà è qui” sotto il fuoco dei Vopos e della Stasi che gl’impedivano d’andare per il mondo. (Strel’)
Sì. Alla fine il capitalismo ha vinto perchè ha sempre messo al centro l’uomo. Il che, conoscendoci, non è sempre una buona cosa. Ma di tanto in tanto, siamo capaci del buono, del bello e del giusto: e da queste parti, grazie a Dio, abbiamo la possibilità di fare e di essere ciò che siamo. (Squonk)
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“Al tempo stesso, Berlino non nasconde i suoi tempi cupi. Non nasconde le ferite, il Muro, le persecuzioni, il Fuhrer, le divisioni. Sono tutte lì, per chi le ha viste e per chi non c’era: i carri armati sovietici, la spoglia sala della Neue Wache a memoria delle vittime di tutti i totalitarismi, i nomi dei cittadini di Weimar uccisi dai nazisti impressi proprio di fronte al Reichstag. E’ un posto, Berlino, dove “memoria” è una parola che non ha perso senso; un’altra, come “libertà”. E’ un buon motivo per girarla, a piedi, da soli, e in silenzio.” (Squonk)
Sir, forse sarà un esorcismo per il passato che non passa e dove la parola memoria espone pericolosamente tutti i suoi significati e dove è impossibile ingabbiarla nei libri di storia che i frammenti son ancora troppo grandi che è impossibile fare archeologia sui corpi delle persone che ancora ricordano le varie bastonate. (Strel’)
E’ possibile, ma io credo che ci sia dell’altro. Non ho potuto vedere molto di questa città, ma mi son trovato di fronte a gran cantieri, a quartieri buttati giù in attesa di ricostruzione, ad una specie di spinta verso altro: insomma, non mi pare che abbiano avuto paura di cancellare, di radere al suolo. E quindi credo che, se il passato resta ancora lì a far mostra di sè, a dare senso alla parola “memoria”, questo sia frutto di una scelta, e non dell’inevitabilità. (Squonk)
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“La vera sconfitta del comunismo la si vede a cento metri dal Checkpoint Charlie, dove una decina di banchetti tenuti da immigrati prevalentemente turchi mettono in vendita i ricordi – alcuni veri, altri falsi, ma non fa differenza – di un mondo che non c’è più: elmetti dei Vopos, mostrine dell’esercito russo, maschere antigas, bandiere della DDR.
Passi da un banchetto all’altro, contratti, reciti, alla fine torni a casa con un orologio che ha sul quadrante falce e martello e che ti farà fare un figurone con gli amici. L’immigrato ha venti euro in più in tasca, ed un altro pezzetto di storia viene mandato in vacca. A pensarci, stupisce che gli anticomunisti viscerali continuino ad incaponirsi contro questo nemico ormai immaginario: bastano quattro soldi, per riporlo nel cassetto del comodino. (Squonk)
Perchè è buono ciò che vende, Sir, e non l’inverso e Berlino ne è mica immune e allora ne approfitta offrendo all’impulso acquistivo dei passanti non solo merci ma il significato delle merci e ancor di più i simboli mercificati di ciò che un tempo s’opponeva o diceva d’opporsi a un mondo dominato solo dalle merci. La sconfitta non sta tanto nella vendita quanto nell’acquisto. (Strel’)
Io parlo per me, Strel’. L’orologio russo lo compro a mo’ di riconoscimento verso una splendida utopia risoltasi in orribile tragedia. Un quadrante con le lancette a forma di svastica mi parlerebbe di una oscena utopia risoltasi in orribile tragedia. So di contraddirmi, so di aver scritto che si deve giudicare cosa e come si è fatto; eppure, mi piace tenermi (al polso, nel cassetto del comodino) questo pezzetto di illusione. (Squonk)
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Al Muro ci si arriva quasi per caso, percorrendo il mezzo chilometro che separa la sede del Ministero delle Finanze dal Checkpoint Charlie. Era lungo più di centocinquanta chilometri, oggi a Berlino ne rimangono duecento metri, conservati come un monumento.
Senza i graffiti di Keith Haring e delle altre migliaia di artisti veri o presunti che ci si sono allenati sopra, si mostra per quello che era veramente: un pezzo di cemento armato, squallidamente grigio, alto meno di tre metri, al di sopra del quale si vedono i palazzi che stanno sul lato opposto della via.
Guardi le foto che ricordano le centinaia di persone uccise dai Vopos mentre cercavano di scavalcare Die Mauer, cerchi di immaginare cosa voleva dire passare di fianco a quel pezzo di cemento buttando fugacemente l’occhio dall’altra parte.
A me viene in mente che se avessero preso un berlinese dell’est dei primi anni Ottanta, e gli avessero messo in mano i testi di The Wall, quest’uomo avrebbe scosso la testa, ed avrebbe mormorato “Roger Waters, stupido coglione, cosa ne sai tu di cos’è un muro?”. Non avrebbe avuto torto.
[Roger Waters non mi è mai stato simpatico; oggi ancora meno]” (Squonk)
Ci voleva una favola nera, Sir, o un cartone animato più livido e una sceneggiatura più solenne per ricordare Berlino e il suo muro in un film o una canzone che se in terra e nella materialtà stava il desiderio di manicheismo armato, nell’immaginario sarebbe dovuto apparire un caleidoscopio impazzito di mattoni e graffiti irriconoscibili da una parte o dell’altra. (Strel’)
Strel’, io so solo che i muri dell’incomunicabilità con le paturnie annesse e connesse ce li siamo inventati noi, fighetti nati e cresciuti nella bambagia – mi passi la retorica. Vedendolo, die Mauer, e pensando a Waters, ho realizzato la differenza tra tragedia e farsa. (Squonk)
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“La città che ha abbattuto il muro è in mano ai muratori.” (Wittgenstein)
E quei muratori lavoran tutti al nero, Luca. (Strel’)
Non mi diventi manicheo proprio lei, Strel’; non scriva “tutti” sapendo che non è vero. Non è differenza di poco conto. (Squonk)