Ne sento fare il nome dall’altoparlante. “I minori non accompagnati M. sono attesi in Sala Amica”, dice, e immagino questi bambini guardarsi in faccia e chiedersi cosa è e dove è la Sala Amica.
Arrivano pochi minuti dopo, scortati da una hostess che li fa sedere alle spalle del banco del check-in. A guardarli non si può evitare di intenerirsi: il fratello maggiore, undici-dodici anni, gli occhiali da miope precoce e sul volto il senso di responsabilità unito allo smarrimento dell’incarico; il fratello di mezzo, l’aria sveglia dei secondigeniti, divertito ed eccitato; e la sorellina, sei o sette anni al massimo, che sta chiaramente pensando alla mamma e che vorrebbe essere ovunque, ma non lì, sballottata tra la Sala Amica, il check-in e una bestia grande grossa e con le ali. Quando salgo sul bus li perdo di vista, mi chiedo dove sono finiti, se stanno partendo o tornando a casa, che lingua parlano, se hanno un po’ paura.
Li rivedo passarci davanti, camminare veloci sull’asfalto, la bimba tenuta per mano dalla hostess – surrogato in divisa della mamma – i due maschi con i loro zaini pieni di chissache. Tra due ore ci sarà un adulto ad abbracciarli, e per loro questa diventerà una gita da raccontare a scuola.