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16/10/2006
I cable car, i tram trainati da un filo metallico che scorre sotto l’asfalto, quelli li conosciamo tutti. Sono uno dei simboli di San Francisco. Eppure, gli indigeni considerano come cosa loro, e in quanto tale gli sono particolarmente affezionati, i tram che il Comune di Milano gli ha donato molti anni fa. Sì, quelli degli anni Trenta, quelli con i quali noi cittadini della Madonnina siamo nati e cresciuti, rumorosi, scomodi, sferraglianti, lenti. Girano sulla F Line, da Fisherman’s Wharf a Castro, e sono sempre pieni, sia di turisti che di locali, e bisogna dire che fanno la loro porca figura – certo avere il Bay Bridge alle spalle invece che il murales di Armani in via Broletto aiuta l’impatto scenico, oggi sono corso dietro a uno per fotografare la scritta “Milano, Italy” che su un finestrino ne ricordava l’origine e il donatore, poi mentre stavo scattando ho pensato a cosa stavo facendo e ho fermato l’indice.
Credevo che fossero stati portati qui come attrazione turistica, e invece leggo che i famosi leoni marini del Pier 39, che se ne stanno a dormire su queste grandi piattaforme di legno mentre i turisti li fotografano e ridono quando loro sbadigliano, vanno e vengono come gli pare e piace, e a volte sono cento, a volte venti e a volte cinquecento e ne hanno contati un giorno quasi un migliaio, ma poi quando viene l’estate preferiscono altri posti – insomma dei turisti se ne fregano bellamente, e mi stanno ancora piu’ simpatici.
Non posso dire di amare i cani. Ognuno ha i suoi difetti, mettiamola così. Però qui a Crissy Field ci sono queste spiagge da cartolina, con le piccole dune di sabbia, i gabbiani reali, e decine di cani che giocano a rincorrere palline da tennis lanciate in mare, e si buttano e corrono e saltano e si scuotono per asciugarsi, e per dieci minuti lo ammetto, questi quadrupedi mi stanno davvero simpatici.
Mi chiedo se i telefoni dedicati al crisis counselling che si trovano ogni tre-quattrocento metri sul Golden Gate, quelli che stanno sotto un cartello che ricorda che attento, se ti butti da qui le conseguenze possono essere tragiche e fatali e allora prima di farlo pensaci bene, facci una telefonata e ne parliamo, ecco, mi chiedo se quei telefoni sono mai stati usati – e se sì, con quali risultati.
Non starò a raccontare di come è fatto e di quanto è bello il Golden Gate. E’ magnifico, in ogni senso, e tanto basti. Il percorso di ritorno, dalla Marin County a San Francisco, lo si fa tenendo la città sulla propria sinistra, sempre bene in vista. E alla fine, si cammina cercando di staccare gli occhi, semplicemente perchè c’è troppo da vedere, e non si sa nè da dove iniziare, nè dove finire.
Non ci sono molti posti dovrei vorrei vivere, o forse ce ne sono così tanti che ne ho perso il conto ed è come se non ce ne fosse nemmeno uno. Ma insomma, se dovessi scegliere, certo farei un pensierino a Marina, la via che dopo Fort Mason porta alla zona sabbiosa di Crissy Field e al Golden Gate, con le case vittoriane che guardano sul mare, il ponte rosso sulla sinistra, Alcatraz di fronte, e la serenità assoluta di chi vive bene e in pace con se stesso (d’altra parte, un trilocale viene via a un milione e mezzo di dollari, tanto male non stanno da queste parti).
Quattro anni fa, la domenica qui era affollata di gente che giocava a football e soprattutto a baseball – tutto molto american style, forse perchè i Giants giocavano le World Series e i 49ers non erano ancora caduti nella polvere dalla quale non si sono più rialzati. Adesso, vedo tredici campetti disegnati col gesso, campetti di calcio – anzi, soccer, come si dice da queste parti. Centinaia di bambini, con le loro magliette e le scarpette e i genitori assiepati ai bordi del campo in piedi con le mani a megafono intorno alla bocca a gridare “C’m on Johnny” mentre i fratellini più piccoli stanno sdraiati sui plaid del picnic. Come i bambini di Milano, come i bambini di Valencia, come i bambini di qualunque posto del mondo, se ne fregano degli allenatori e dei loro consigli, e fanno quello che gli viene più naturale: giocano. Così, si precipitano in tre sul pallone, e lo mancano tutti e tre con i movimenti goffi dei seienni, e non si arrabbiano: si fermano per un attimo e poi ridono, che Dio li benedica. Sul campo a fianco il più bravo di tutti dribbla mezza squadra avversaria, poi arriva in area di rigore e si impappina, e l’allenatore-arbitro lo guarda e gli dice – a voce alta, che lo sentano tutti – Hey, this is a passing game, e mi sembra la frase più sensata di tutta la giornata.
Anche quattro anni fa, la prima cosa che notai di San Francisco furono gli homeless, i dropouts, insomma quelli che da noi si chiamano, in modo poco politicamente corretto, barboni. Ho l’albergo in Mason Street, a due passi da Union Square, la piazza simbolo della ricchezza di San Francisco con i suoi negozi scintillanti e le limousine che passano così frequentemente da non essere neppure notate. E a due passi da Market and Fifth, nella piazza dove si riuniscono (senza saperlo, tutti persi dietro la loro solitudine) i senza casa, i disadattati, quelli che vanno a pietire un dollaro ai turisti che aspettano di salire sulla cable car in Powell Street, o che li insultano con la voce resa roca dall’umidità e dagli anni passati dentro ai portoni. Mentre mangio un hamburger da Carl’s sento una donna raccontare all’uomo della security del locale “I did my second drug test, and they had all those f****** questions, and…” e lui scuote la testa e sorride e fa segno che sì, capisce, sono proprio dei bastardi, mentre la figlia della donna si prende la sua razione di rimproveri perchè gioca sotto i tavoli del fast food. Escono, madre e figlia, e le guardo mentre passano tra gli altri disadattati di questa città, e penso che la grande l’abbiamo persa – e probabilmente abbiamo perso anche la figlia. C’era un game show in televisione, qualche tempo fa: L’eredità. Ecco, appunto.
L’aereo – e in particolare l’aereo sopra l’oceano – è il posto ideale per leggere. Non c’è altro da fare (a meno che voi non siate di quelli che in viaggio dormono, oppure guardano uno dei solitamente orribili film delle programmazioni transoceaniche), e si vive la perfetta sospensione del tempo.
Questa volta, poi, ho ripreso un libro abbandonato tre volte nei mesi scorsi, e – chissà, forse perchè a diecimila metri di altezza splende sempre il sole – l’ho trovato bellissimo.
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