Una cesta di fichi d’India
Non erano ancora le dieci di quel mattino di agosto quando arrivai insieme a mia cugina Anna all’altezza della grande vasca di pietra dalla quale mezzo paese attingeva l’acqua che non arrivava nelle case. Portavamo una grande cesta di vimini, lei tenendo un manico e io tenendo l’altro. La cesta era piena di fichi d’india, già maturi per il gran caldo di quell’estate. Avevamo entrambi dodici anni, camminavamo a piedi nudi e il nostro mondo andava dalle colline dove correvano i cinghiali al ponte pisano sotto il quale passava il fiume nel quale chi aveva la fortuna di poter pascolare le greggi nelle vicinanze riusciva a farsi il bagno che soltanto i signori che abitavano in città potevano permettersi. Quando il soldato tedesco ci venne incontro mormorai ad Anna “non preoccuparti, non sembra ubriaco” ma anche senza guardarla capii che lei non mi stava ascoltando. Il soldato era vestito di tutto punto, mimetica, anfibi, elmetto e mitra. Forse era di guardia, non so. So invece che aveva occhi cattivi. Abbassò la canna del mitra puntandola vagamente verso le nostre teste e noi ci fermammo, con la cesta dei fichi d’india che improvvisamente diventò pesante come le pietre del nuraghe vicino al santuario della Madonna della Neve; ci disse qualcosa che noi naturalmente non capimmo, ce la ripetè urlando e noi rispondemmo che non capivamo, che non avevamo fatto niente, che stavamo tornando dalla campagna e le nostre madri ci aspettavano. Il soldato sputò per terra, poi si avvicinò di qualche altro passo, guardò nella cesta. Nel momento preciso in cui allungò la mano riuscii a guardarlo bene, come se ogni secondo durasse un’ora, poteva avere vent’anni, aveva la testa biondo cenere, gli occhi di ghiaccio spento e le guance incavate di uno che soffriva la fame ancora più di noi. Come Anna ero paralizzato dal terrore, ricordo ancora adesso il mitra tenuto appoggiato su un fianco e retto dalla mano destra che puntava verso di noi. Non riuscii a dire nulla, a fermarlo in tempo. Fu un lampo, prese uno dei fichi d’india dalla cesta e se lo portò alla bocca, così in fretta da non aver tempo di sentire il dolore delle spine che gli entravano nella mano: e un secondo dopo cento altre spine gli si infilzarono nelle labbra, tra i denti, nelle gengive. Anna mollò la presa, la cesta rimase appesa alla mia mano mentre i fichi d’india rotolavano per terra e il soldato tedesco urlava impazzito dal dolore. Nella vita non ho mai più avuto tanta paura quanto quella mattina di agosto, quando quel ragazzo che veniva da una terra nella quale i fichi d’india nessuno sapeva cosa fossero portò la canna del mitra all’altezza della mia bocca, e poi all’altezza della bocca di Anna e io vidi solo bianco per quei pochi, eterni secondi durante i quali un altro soldato corse verso di noi urlando parole che non capimmo ma che ci salvarono la vita. Raus, urlò questo angelo sbucato da una tenda verde, raus, via di qui, mollò un calcio alla cesta e un tremendo ceffone al ragazzo che avrebbe voluto spararci e noi corremmo via, senza guardarci indietro, senza fiato, senza la nostra cesta di fichi d’india.
Non so perché mi sia tornata in mente questa scena di settant’anni fa proprio oggi, nella sera di un Natale piovoso a mille chilometri da quella vasca di pietra. Sono abbastanza anziano da sapere che non puoi sempre controllare quello che ti passa per la testa; anzi. Guardo fuori dalla finestra, ci sono le luci intermittenti degli addobbi. Chissà perché penso a che fine ha fatto quel ragazzo che avrebbe voluto uccidere me e mia cugina, e nello stesso tempo, con ancora meno motivi, penso a qualcosa che mi manca senza sapere bene cosa possa essere, un augurio al quale tenevo, una ragazza dai capelli neri, una motocicletta col serbatoio pieno, una cesta di fichi d’india.
December 26th, 2012 at 01:06
Già è così