Rinunce
Regolarmente, dopo un qualsiasi atto terroristico di una qualche gravità, arriva la richiesta di aumentare quantità, qualità e durata dei controlli sulle comunicazioni interpersonali: e-mail, telefonate, fax, sms e così via.
Ogni volta, la domanda che ci viene veramente posta è molto semplice: a quanta libertà sei disposto a rinunciare, in cambio di una maggiore sicurezza?
Io, sinceramente, non so cosa rispondere. L’idea che qualcuno tenga traccia delle mie comunicazioni – private o professionali, poco cambia – mi disturba; peraltro, mi dico, se questo dovesse impedire a qualcuno di farmi saltare in aria mentre sto percorrendo la tratta Molino Dorino – Cadorna FN, sarebbe un sacrificio accettabile, come il denudarsi in pubblico per prendere un aereo (chi conosce gli aeroporti americani sa di cosa parlo).
Ma: la rinuncia che ci si chiede, porterebbe realmente un beneficio? Non sono abbastanza esperto in materia: a pelle, direi che questo sarebbe molto modesto, ma magari mi sbaglio. E poi: la rinuncia di cui si parla non è soltanto quella più evidente, la rinuncia a che un invito a cena o l’invio di un curriculum sia soltanto un affare che riguarda il sottoscritto e il destinatario del mio messaggio; è molto di più, è la rinuncia al mio, al nostro modo di vivere. E mi chiedo se rinunciarvi non sia già un altro modo di morire.
Repubblica.it
July 11th, 2005 at 13:47
Se c’è qualcosa in cui il terrorismo può ottenere delle vittorie è precisamente e solo questo: farci rinunciare a piccoli pezzi di civiltà.
July 11th, 2005 at 14:39
Già… un modo di morire lentamente.
Anche perché non si può pensare di essere protetti da tutto, e la morte, in fondo, è un destino che ci attende tutti. Vivere con la paura non è vivere… bisogna conviverci, certo, ma lasciarsi dominare da essa è consegnare ai terroristi la vittoria di cui parla sphera.
July 11th, 2005 at 15:24
Rileggendo il post, mi trovo un po’ – come dire – apocalittico, e non era questa la mia intenzione. Riccio, capisco il ragionamento, ma non credo che un ministro possa apostrofare i suoi cittadini con un “morire comunque dobbiamo”, e non credo che alla base dell’idea di schedare le comunicazioni dell’intero mondo occidentale vi sia l’essere dominati dalla paura. Però è chiaro di cosa stiamo parlando: che l’eventuale vittoria sul terrorismo sia una vittoria di Pirro, il cui risultato finale sia quello di renderci molto, troppo simili a coloro che ci vorrebbero far saltare in aria.
July 11th, 2005 at 16:17
Sir, il mio non voleva essere un memento mori, e il morire lentamente era un mero richiamo alla poesia di Neruda e alle rinunce che ci portano a “non vivere”.
No, non credo che sia compito di un ministro ricordare l’ineluttabilità della morte (per mantenere il suo tono apocalittico), credo però che solo la paura possa indurre ad accettare limitazioni della propria libertà. Anche nelle comunicazioni. (Forse ho concentrato la mia attenzione più sulla “tratta metropolitana” del post, però… di questo chiedo venia).
July 11th, 2005 at 16:27
A ben vedere, di limitazioni alla nostra libertà giustificate da motivi di sicurezza ne accettiamo parecchie, tutti i giorni: pensiamo ai controlli aeroportuali, oppure a quelli che ci vengono fatti quando dobbiamo entrare in una banca. A Cannes, per il Lions Festival, sarò stato controllato non meno di quindici volte in tre giorni (può aprire la borsa? merci monsieur). In metropolitana abbiamo telecamere ovunque, lo stesso dicasi per migliaia di uffici di aziende di ogni tipo. Ma non ci pensiamo quasi più; anzi, ci scandalizziamo se questi controlli ci sembrano affetti da lassismo: cosa diremmo se a Fiumicino o a Linate ci facessero passare la security così come avveniva cinque anni fa? Insomma, la paura – o qualcosa che le assomiglia abbastanza – fa già parte delle nostre vite.