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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    02/07/2007

    A trenta centimetri dall’asfalto

    Filed under: — JE6 @ 13:06

    Fermo ad uno dei semafori di Piazzale Baracca, in attesa del verde che mi permettesse di attraversare la strada e andare in Corso Magenta, mi sono fermato a guardare questo mazzo di fiori, infilato in una bottiglia di plastica e legato al semaforo stesso da un po’ di elastici e di fili verdi. Sono cose che capita di vedere in periferia, o sui guard-rail delle provinciali che partono dal nulla e nel nulla rientrano: ho cercato di immaginare chi era il morto, e chi sono gli amici o i parenti che per ricordarlo si fermano sotto le finestre di appartamenti da ottomila euro al metro quadro e attaccano ad un semaforo una bottiglia di plastica e quattro fiori che marciranno tre ore dopo. Poi il semaforo è diventato verde, ho schivato uno scooter e mi sono trovato a pensare ad altro. E poi, dieci minuti fa, nell’aggregatore mi è passata questa foto di Suzukimaruti, mi è tornato in mente il semaforo di Piazzale Baracca e anche questo pezzo, scritto tanto tempo fa per Sacripante.

    Quanto mi piacerebbe dormire.
    Non chiedo tanto, mi basterebbe un’ora, anche dieci minuti sarebbero sufficienti. Vorrei tanto stendermi sul letto, appoggiare la testa sul cuscino, addormentarmi e sognare, proprio come fa ogni cristiano su questa terra.
    Ma non posso.
    Quando sei al tuo primo lavoro ed hai passato da soli due mesi le forche caudine del periodo di prova, non fai troppo lo schizzinoso. Ho acceso il motore quando i panettieri non avevano ancora iniziato a lavorare, e sono partito. Milleseicento chilometri in due giorni. Clienti, fornitori, uno dopo l’altro fino a confonderne le facce in un’orgia di sale riunioni, caffé acidi, sigarette senza filtro e spaghetti troppo al dente. Anche se lo avrei voluto, non mi sono azzardato a mettere in nota spese due notti in albergo, invece di una sola: cost optimization, la chiamano; e, in fondo, migliaia di camionisti fanno la stessa vita, ogni santo giorno.
    Così mi sono trovato con le mani sul volante e il piombo sulle palpebre, invece di essere sotto le lenzuola di un due stelle in provincia di Treviso. Avrei dovuto frenare e scalare in terza, una volta arrivato a quella curva che avevo fatto mille volte. Avrei dovuto, già .
    Per ironia della sorte, nel momento in cui mi sono schiantato contro l’albero stavo facendo quello che oggi desidero fare, e non posso: dormivo.
    Immagino cosa è successo, dopo. Rumore, una telefonata o due, la polizia, l’ambulanza, qualcuno che fruga nel mio portafogli con una lentezza senza speranza, trovandoci la tessera di donatore degli organi e il mio indirizzo di casa, mia madre e mia sorella svegliate nel cuore della notte. Niente di speciale, roba che non merita nemmeno un trafiletto in cronaca. Infatti.
    Comunque sia, un paio di giorni dopo mia madre, schiacciata dai suoi capelli bianchi e dalla sua quinta elementare, si è fatta accompagnare da una vicina di casa – mia sorella, schiacciata dalle sue meches e dalla sua laurea in economia aziendale, si è rifiutata – e ha piantato una croce alta trenta centimetri vicino alla base di quell’albero.
    Nel mezzo della croce ha incollato una mia fotografia, scattata chissà quando, chissà dove e chissà da chi: ma non importa, per lei è una bella foto, ho i capelli un po’ lunghi e scossi dal vento, una mano alzata come a salutare qualcuno, un sorriso allegro. E ho gli occhi aperti.
    Dalla mia croce, con quegli occhi aperti vedo cadere la pioggia, vedo passare i ciclisti del sabato mattina, vedo i camion della spazzatura, vedo le madri accompagnare i bambini all’asilo, vedo le gambe delle donne. Non chiudo occhio da quattro anni, da quando mia madre mi ha appeso alla croce sul ciglio della strada. E ogni giorno, da quattro anni, sono costretto a vedere la mia vita: quella di un tempo, voglio dire.
    Al cimitero ho una bella tomba, piuttosto sobria rispetto alle usanze di famiglia, ben testimoniate dalla dimora eterna di mio padre, che sta a cinque minuti di cammino di distanza. Eppure, mia madre viene a trovarmi qui, sul marciapiede di una strada di periferia. Una volta alla settimana.
    Da un paio d’anni non piange più, quando arriva. Si ferma dieci minuti, mi racconta del nuovo fidanzato di mia sorella, del rifacimento della facciata del condominio, di questa moneta che io non ho conosciuto e che continua a farla diventare pazza (ma io dico, ma che cazzo di nome è “uro”, sempre che io mi possa fidare di quanto mi riferisce questa donna?), delle piccole cose che la portano da un giorno all’altro.
    Quando arriva il momento di andarsene, mia madre allunga una mano verso la fotografia piantata al centro della croce. L’accarezza e ogni volta, immancabilmente, mormora le stesse parole: “Dormi sereno, figlio mio”.
    Vorrei obbedirti, mamma, non sai quanto.

    Svalutescion

    Filed under: — JE6 @ 10:38

    Il politically-and-marketing correct scricchiola, ma resiste; così, una manifestazione atletica di qualità spesso imbarazzante come la Serie B della Coppa Europa di atletica leggera (Arena di Milano, una decina di giorni fa) viene battezzata “First League”, e lo stesso dicasi per la Serie B del campionato di calcio inglese, e la lista potrebbe andare avanti a lungo. Al piano superiore è tutto un profluvio di Championship, SuperLeague, SuperTen: e nessuno pensa che i superlativi sono come i soldi, se ce ne sono troppi in giro perdono di valore.
    (Da un incipit di Stefano Olivari)