Stories of the Bund – Concorrenza perfetta
Una delle molte cose che mi affascinano di Shanghai è la pazzesca quantità di negozi. Negozi di ogni tipo, forma, dimensione, metratura. Mall enormi dalla struttura ben definita – ai piani alti la ristorazione, quelli centrali il lusso -, flagship stores, antri bui da film dell’orrore. E’ come se il più grande paese comunista del mondo celebrasse l’iniziativa privata dando un’occasione, e uno spazio, praticamente a chiunque. Ovviamente non è così, e ovviamente quello spazio non è mai di proprietà: ma l’impressione è quello di un popolo che ha come principale occupazione vendere qualcosa a qualcuno. E in effetti la cosa davvero strabiliante è proprio quel che viene venduto, e dove, e come. Ci sono vie intere nelle quali i negozi si susseguono senza soluzione di continuità (non parlo di vetrine perché molto spesso non esistono: si alza una serranda e da mattina a sera l’attività è praticamente a cielo aperto), vendendo tutti, ma proprio tutti le stesse cose: viti bulloni molle e ingranaggi in questa via, carni in quest’altra, frutta e fiori in quell’altra ancora. Poco fa ho trovato tre negozi in venti metri, due affiancati e uno di fronte: vendevano tutti pannolini e assorbenti. Stessi prodotti, stessi prezzi. Il Fake Market è l’apoteosi, in un corridoio ci sono venti negozi “do you want bags?” e gli altri venti si dividono in dieci che vendono cinture e portafoglio e dieci che vendono polo e t-shirt. Identiche tra di loro. Come facciano a sopravvivere non lo so, hanno tutti due o tre lavori perché uno non basta per reggere il costo della vita di Shanghai: si dice che siano in tanti a voler tornare nelle campagne, ma il governo centrale non gradisce, costa meno creare le infrastrutture per una megalopoli che per mille cittadine che in Europa sarebbero di media dimensione, si chiamano economie di scala; e poi quando hai assaggiato i colori e la velocità e i suoni, quando hai sfiorato con un dito la vita che hai sognato e che ti hanno fatto sognare, non è facile – credo – decidere di tornare sui propri passi e trovarsi qualcosa da fare nel silenzio di quel territorio immenso che ho visto dai finestrini del treno, e che sembrava uscito da una guerra, sebbene combattuta contro se stesso.