Cammino sulla sponda sinistra del Danubio, proprio sotto il sontuoso palazzo del Parlamento, guardando verso la collina di Budovar. Inciampo in una scarpa, e poi in un’altra. Mi fermo a guardare, e realizzo che di scarpe come quelle, su quel tratto di riva, ce ne sono molte altre decine: tutte di metallo, inchiavardate al terreno. Scarpe da donna, da uomo, da bambino. Stivali, calzature da lavoro, ballerine. Alcune hanno le suole staccate dalla tomaia, altre sembrano comprate da pochi giorni, la maggior parte hanno conosciuto certamente tempi migliori.
Tre targhe, in inglese, magiaro ed ebraico, ricordano gli ebrei che vennero fucilati e gettati nel fiume dai miliziani filonazisti tra il 1944 e il 1945. Mi tornano in mente Dachau e Mauthausen, le foto delle migliaia di scarpe che i deportati lasciavano in cambio degli zoccoli di legno che li avrebbero accompagnati fino alla morte. Per un attimo, un attimo solo, penso – non so perchè, o forse sì – a Dolce e Gabbana. Guardo un paio di scarponi sfondati.