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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    20/02/2007

    Udvozlet Budapestrol – 9. Che tempra

    Filed under: — JE6 @ 22:57

    Nella vita capita anche che uno si ritrovi seduto al tavolo di un biergarten, a bere Goesser, mangiare petto di tacchino farcito con mele e formaggio affumicato (il tutto sdraiato su un tappeto di ciliegie) e ascoltare il fratello magiaro di Riccardo Garrone che suona ‘O sole mio al vibrafono accelerandola a 78 giri. Nella vita capita anche che uno sopravviva.

    Udvozlet Budapestrol – 8. Ma non ditelo a Strauss

    Filed under: — JE6 @ 22:14

    Il Danubio è esattamente come me lo ricordavo: verde sporco, e trasparente come un impasto di cemento. Però di sera tutto questo non si nota, e sembra magnifico.

    Udvozlet Budapestrol – 7. Collezioni permanenti

    Filed under: — JE6 @ 22:11

    La parte più affascinante della Hungarian National Gallery non è il luogo fisico (il castello di Buda), l’esposizione di arte gotica o quella di arte contemporanea ungherese post-1945. No, il magnetismo promana dalle custodi, straordinarie matrone dai capelli bianchi come la neve, di età persino superiore a quello delle mitiche hostess della Delta in servizio sul Milano-Atlanta. Stanno sedute in pace con se stesse e con il mondo, la maggior parte indossa ciabatte bianche ospedaliere, una ostenta un clamoroso buco nella calza in corrispondenza dell’alluce sinistro. Probabilmente hanno iniziato a lavorare qui prima che la maggior parte delle opere oggi presenti venissero esposte; bisognerebbe pagare il biglietto solo per vederle, ma qui si entra a gratis – la cultura regalata al popolo.

    Udvozlet Budapestrol – 6. Scarpe

    Filed under: — JE6 @ 21:58

    Cammino sulla sponda sinistra del Danubio, proprio sotto il sontuoso palazzo del Parlamento, guardando verso la collina di Budovar. Inciampo in una scarpa, e poi in un’altra. Mi fermo a guardare, e realizzo che di scarpe come quelle, su quel tratto di riva, ce ne sono molte altre decine: tutte di metallo, inchiavardate al terreno. Scarpe da donna, da uomo, da bambino. Stivali, calzature da lavoro, ballerine. Alcune hanno le suole staccate dalla tomaia, altre sembrano comprate da pochi giorni, la maggior parte hanno conosciuto certamente tempi migliori.
    Tre targhe, in inglese, magiaro ed ebraico, ricordano gli ebrei che vennero fucilati e gettati nel fiume dai miliziani filonazisti tra il 1944 e il 1945. Mi tornano in mente Dachau e Mauthausen, le foto delle migliaia di scarpe che i deportati lasciavano in cambio degli zoccoli di legno che li avrebbero accompagnati fino alla morte. Per un attimo, un attimo solo, penso – non so perchè, o forse sì – a Dolce e Gabbana. Guardo un paio di scarponi sfondati.