Greetings from Beijing – In treno
Ci vogliono cinque ore per fare i circa 1300 chilometri che separano Shanghai da Pechino. Alcuni di noi – quelli che su questo treno sono già saliti tante volte – si siedono e si addormentano, o rispondono alle prime mail della giornata. Gli altri, siamo in due, stanno con il naso appiccicato al finestrino come bambini eccitati. Non è facile spiegare cosa si vede, ed è stupido cedere alla tentazione di credere che davvero stai vedendo un paese: soprattutto se di queste dimensioni. Quella che ti passa davanti agli occhi è una striscia, profonda per quanto te lo consentono il clima del giorno e l’inquinamento, niente di meno ma niente di più: è una striscia fatta di palazzi che si abbassano in altezza dall’Himalaya di Shanghai alle casette tutte uguali dei villaggi, di campi eterni nei quali non vedi nessuno lavorare, di rare colline, di polvere e un senso di abbandono potentissimo. Dove sono tutti quanti, viene da chiedersi. Poi ti ricordi dei ventiquattro milioni di persone che vivono nell’area di Shanghai, dei venti che stanno a Beijing e dei dieci che abitano a Shenzhen, dell’immenso movimento di persone da questi campi a queste città; e nonostante la sensazione che ci prende, a noi due neofiti, per almeno quattro delle cinque ore del viaggio, la sensazione di essere di fronte a uno dei quei brutti film sulle catastrofi nucleari a volte intervallata dallo stupore pieroangeliano nel guardare questi microscopici agglomerati di abitazioni dove le case sono tutte identiche, tutte messe nella stessa posizione con la porta che dà verso sud su tre o quattro vie lunghe ciascuna cinquanta o cento metri, nonostante la straniante sensazione di attraversare uno dei paesi più popolosi del mondo trovandolo vuoto, nonostante tutto questo ci dimentichiamo dei nostri libri e della nostra musica e restiamo lì, per ore, a guardare una specie di nulla al quale proviamo a dare un senso scolastico, non disponendo di quello della vita reale.