Pizzaballa, due cilindri e cinque birilli
Ovvero, come ho conosciuto Herr Effe.
“La stai ancora cercando, quella figurina?” mi fa la voce al telefono. Nessuna inflessione, non saprei nè riconoscerla nè descriverla.
“Certo” rispondo, con un leggero tremito nella voce. E’ così tanto tempo che la cerco. “Dimmi cosa devo fare per averla, e lo farò”.
“Presentati a questo indirizzo di Torino che sto per darti. Domani, alle cinque del pomeriggio. Devi solo fare questo”.
Non passa mai il tempo, quando attendi che si esaudisca un desiderio. E comunque, alle cinque del pomeriggio, sono lì, in una anonima via della periferia torinese. Non c’è anima viva, tranne un uomo alto e snello, vestito di nero, appoggiato ad un Suzuki 800.
Nel silenzio di questo luogo dimenticato da Dio, mi fa un cenno, imponendomi di seguirlo. Mi affanno per obbedire al comando, gettando in macchina giaccone e computer, e mi accodo alla bicilindrica. Noto, con stupore pari allo sgomento, che l’osceno traffico metropolitano lascia spazio alla mia guida, aprendosi davanti a lui come le acque del Mar Rosso.
Dopo qualche minuto, mi viene fatto un nuovo cenno, che mi impone di accostare. Parcheggio, e capisco che devo scendere dalla macchina. La mia guida è lì ad attendermi, e, sempre in silenzio, mi porge un casco che ha estratto da una delle borse che adornano il suo mezzo. Indosso il casco, e monto in sella alle sue spalle, cingendogli la vita preso da un timore innominabile.
La sua guida è sicura e calma: non uno scossone, non uno scarto. Come per incanto, in un dedalo di vie tutte uguali e tutte colme di vetture più o meno sgasanti, un automobilista gli lascia posto per parcheggiare proprio di fronte a quella che intuisco essere la nostra destinazione finale. Una sala da bowling.
Entriamo, io alle sue spalle che cerco di tenerne il passo, lui con ancora il casco calcato sul viso.
Qualche scalino, una ventina di passi, e poi un nuovo cenno silenzioso: vai da quella parte. Obbedisco: posso fare altro? E poi, c’è quella figurina che mi aspetta.
Seguo la direzione indicatami dall’uomo in nero. Biliardi. Una decina da “125”, la carambola americana. E tre tavoli da cinque birilli: grandi, verdi, lisci. Sul tavolo più lontano ci sono già i birilli pronti, due stecche appoggiate sulle sponde lunghe, le tre biglie disposte per l’acchito. Mi avvicino, mi tolgo il giaccone, e mentre inizio a passare il gesso sulla punta di una delle due stecche, sento arrivarmi alle spalle la voce che ho sentito al telefono.
“Bionda o rossa?” mi chiede. Con la fronte leggermente imperlata di sudore, mi giro su me stesso. Ha tolto il casco, ed anche il giubbotto da motociclista. Non so perchè, ma non sono sorpreso nel vederlo; è come se lo conoscessi già, questo David Niven che mi chiede di scegliere tra le due birre che tiene in mano.
Scelgo la bionda, ed inizio una partita senza punteggio, densa di silenzio, di occhiate e di buoni colpi. Il tempo passa, sono indeciso se telefonare a mia moglie e dirle che farò tardi, più tardi del previsto.Ma il mio attore inglese, senza preavviso, ripone la stecca mentre io sono chino a studiare un tre sponde. Con una mossa rapida, le sue mani da pianista portano alla luce un pacchetto blu, e me lo porgono con una sorta di imperiosa cortesia.
“E’ per me?” balbetto. Mi rendo conto subito che la domanda è stupida, ma David Niven non mostra fastidio nel sentirla. Un altro cenno con la testa, ad impormi di aprire senza perdere altro tempo.
Scarto ansiosamente. Un libro. Adelphi. Pessoa.
“… Grazie, non ho mai letto nulla di quest’uomo, è davvero un bel pensier…”
“Aprilo. Pagina 187”
Sì, certo, subito, pagina centoottantasette. Una figurina. Un calciatore, con la maglia granata, un piccolo toro bianco all’altezza del cuore. La scritta dice solo “Pizzaballa”. E’ lei.
Guardo la faccia del giocatore ritratto, alzo il viso e guardo il mio David Niven, riabbasso lo sguardo sulla figurina: la stessa persona.
“Non te lo faccio, l’autografo. Tu non mi hai mai visto, ci siamo capiti? Hai la tua figurina, e questo ti deve bastare”.
Annuisco, basito. Vorrei balbettare almeno un grazie, ma la sua voce tranquilla e ferma mi anticipa.
“E adesso, vai alla cassa. Quaranta minuti, saranno sei euro”.