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19/10/2009
Dall’altra parte di Old Town non si sentono i mariachi; c’è invece questo trio jazz, batteria, basso e xilofono. Sono bravi, anche se si sono dati un nome sciagurato – The Jazz Pigs -, o forse fanno semplicemente la musica giusta al momento giusto per le persone giuste, che in fondo è tutto ciò che si può e si deve chiedere. Saremo in tutto una decina ad ascoltarli, chi seduto su improbabili sedie pieghevoli, chi – come me – appoggiato sulla pietra che ricorda dove è stata piantata per la prima volta la bandiera stelle-e-strisce nella California del Sud, anno domini 1846. Si alza una coppia, e improvvisamente tutta l’attenzione si riversa su di loro: avranno entrambi una settantina d’anni, e sono vestiti come gemelli – lo stesso giubbotto giallo, la stessa camicia viola, gli stessi pantaloni bianchi, le stesse scarpe gialle. L’unica differenza viene fatta dagli orecchini di lei e dal cappello da baseball di lui. Gialli, ovviamente. Si mettono a ballare, e quelle che sembravano due statue di Madame Tussauds – i classici pensionati americani – iniziano a muoversi leggeri, lei con la mano sulla spalla di lui, lui che detta i tempi e i movimenti. Non posso dire che siano bravi; ma da quella bolla spaziotemporale che, muovendo il primo passo, hanno creato dal nulla emanano una certa strana allegria, una levità svagata e sorprendente. Finisce il pezzo, noialtri applaudiamo tanto loro quanto i musicisti, loro applaudono il trio, lei tira fuori dalla tasca del giubbotto una digitale e scatta una foto ai tre sul palco. Riprende la musica mentre sto imboccando l’uscita secondaria di Old Town, quella che dà sulla stazione del trolley che porta a downtown; non mi volto, ma sono certo che si sono alzate ancora, le due statue di cera che si amano al punto da vestirsi uguali sfidando ogni senso del ridicolo, e adesso stanno ballando, e la gente le guarda quelle due statue di cera, e le invidia anche se non lo ammetterà mai.
Non ti ho chiesto come ti chiami, ma sappi, commessa di LA Sportie sulla Fifth Avenue di San Diego, California, sappi che quando mi hai guardato ai piedi, e io stavo già uscendo, e mi hai detto “Wow, the old Converse Weapon” e hai sorriso e hai detto “They were so beautiful, great shoes”, sappi che quando ho fatto un mezzo sorriso sconsolato dicendo che dannazione non le fanno più e tu mi hai detto “Wait a minute”, sappi che quando hai chiamato i tuoi colleghi di Los Angeles per sapere se era vero che ce n’era ancora un paio in stock e se lo si poteva far arrivare a San Diego entro mercoledì mattina, sappi che per tutto questo non ti dimenticherò, e non importa se non riuscirò a portare a casa un altro paio delle scarpe più belle che io abbia mai avuto perché quell’unico paio rimasto non era della mia misura, ci sono cose che per un cliente contano quasi più del poter comprare il prodotto che vuole, e quelle cose le ho avute.
A San Diego c’è una Little Italy. L’ho saputo mentre facevo la coda per l’imbarco a Malpensa, una di quelle conversazioni che si fanno per ammazzare il tempo e condividere la noia. Prima mi sono stupito, la California del Sud non è esattamente il posto dove ti aspetti di trovare una comunità tricolore; poi ci ho pensato e mi sono stupito dello stupore, perché ci sono poche cose sicure al mondo – e una di queste è che ovunque andrai troverai un italiano, e una pizzeria Bella Napoli.
Così in un pomeriggio di una domenica di ottobre scendo dal treno che collega Old Town al confine messicano e percorro quella decina di isolati che qui passa sotto il nome di Little Italy. Corrisponde tutto – i nomi, le insegne, le bandiere, l’Italian Community Center, la parrocchia di Nostra Signora del Rosario che il prossimo 7 novembre organizza la Spaghetti Dinner, l’Amici Park con i due campi di bocce dalle sponde tricolori, una specie di piccolo monumento che riproduce il tavolo di una trattoria con la tovaglia a quadretti bianchi e rossi, un piatto di tortellini e la ricetta del sugo alla marinara. Su un muro di India Street, proprio di fronte alla piazza dedicata a John Basilone eroe di guerra, c’è un murales. Ritrae due ragazze in costume, che chiunque può riconoscere come italiane – forse campane, forse lucane, certamente del Sud. Le due giovani sono a una finestra, una appoggiata al davanzale, l’altra in piedi alle sue spalle. Sopra di loro un pergolato di uva, come cornice un muro di mattoni. Entrambe le ragazze sorridono, quella in primo piano in modo aperto, quella che sta dietro si copre la bocca con il velo bianco che le adorna la testa. Mi fermo a pensare che per me quella è un’immagine datata ma comunque familiare: i lineamenti, i vestiti, l’ingenua malizia. Guardo qualcosa che non vedo tutti i giorni, anzi: è qualcosa che non esiste più, né nella Lombardia nella quale sono nato e cresciuto né nel Sud che frequento per le vacanze; ma è qualcosa che esiste ancora nella memoria, una specie di eredità alla quale guardo con una simpatia condiscendente. Mi chiedo cosa dice quel murales a chi non è italiano, a quelli di terza generazione, ai camerieri slavi, ai messicani, agli anglosassoni che vengono da queste parti per mangiare lasagne alle cinque del pomeriggio, mi chiedo se è più vera l’immagine di quelle due ragazze o quella di Patrizia D’Addario: ma questa la conosciamo noi, le prime due sono l’immaginario collettivo di mezzo mondo, e chissà se ha senso lottarci contro.
Mi dico che non può essere tutto finto, nemmeno qui a Old Town. E infatti, non c’è nulla di più vero della morte: basta allontanarsi qualche centinaio di metri, il tempo di far raffreddare una tortilla alla cannella, per entrare nella manciata di metri quadri di El Campo Santo, il cimitero cristiano della metà dell’Ottocento dove sono state riportate alla luce una ventina di tombe dell’epoca. Le storie sono quelle dell’iconografia americana: l’ardito marinaio irlandese, il disertore che si unisce alla rivolta indiana, Juliana Cornelia, died March 3, 1879, aged 108 years, una bambina senza nome sotto la cui croce sta un pupazzo stinto circondato da monetina da dieci centesimi, il tedesco sconosciuto, tre o quattro impiccati per furto. Mi fermo a leggere la storia di Jayme Lyons, tredicesimo figlio di una prolifica coppia, morto a quattro anni di chissà quale malattia: ci sono poche parole che lo ricordano, ma sono quelle che chiunque vorrebbe avere, il miglior epitaffio che ciascuno potrebbe davvero desiderare – not much is known about little Jayme, only that he was loved. Rest in peace, boy.
Arrivo a Old Town permeato dallo scetticismo che non mi tradisce mai quando certe persone mi raccontano di posti meravigliosi, “così genuini e tradizionali”. E infatti Old Town è la più tipica ricostruzione di un villaggio messicano fatta a uso e consumo dei turisti: ogni edificio è un negozio, o un saloon, o un ristorante, nella piazzetta suonano tre mariachi con tanto di chitarròn e violino – però salutano con un “okay guys” che li tradisce – ogni porta magnifica “the best margarita in town”. Sembra di stare nel corso principale di Lignano Sabbiadoro, insomma. Alla fine, dopo mezz’ora di inutile girovagare, affranto dalla totale mancanza di messicanitudine di questo posto entro al Cafè Coyote, e faccio la cosa più americana che si possa immaginare: mi siedo al banco, faccio un cenno con la testa al barman, ordino una Red Trolley Ale, mi metto comodo di fronte allo schermo – Philadelphia è sotto 10-6 con Oakland, c’è un piccione fermo sulla linea delle 40 yard dei Raiders che non si sposta nemmeno quando il quarterback chiama la shotgun formation.
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