Saluti da Muggia – Splendor
Esco dalla Risiera di San Sabba, imposto sul navigatore l’indirizzo croato che devo raggiungere per lavoro, esco da questa zona di Trieste fatta di cantieri, stabilimenti, raccordi autostradali. Faccio due conti, ho deciso che arriverò a Pola senza fare l’autostrada e quindi mi ci vorranno un altro paio d’ore, così esco quasi subito per fermarmi a mangiare un boccone a Muggia. Faccio quattro passi, mi fermo a guardare un cartello scritto a mano che dice “faccio un saltino al bagno, ci vediamo martedì” e impiego qualche secondo a capire che è la versione triestina del back soon, passo davanti alla pescheria comunale e al chilometrico elenco dei tipi di pesce che vi si possono vendere e acquistare, guardo la bandiera del PD appesa fuori dalla sezione che festeggia i 584 voti di preferenza ricevuti e imparo come si dice Partito Democratico in slavo. Vedo una piazzetta che mi attira ma mi dico che tanto il paese è piccolissimo, cammino ancora un po’ su questa via stretta che lo taglia a metà e poi ripasso, e quei cento metri che aggiungo senza motivo se non quello di passare un po’ di tempo a far nulla mi regalano l’ingresso della Trattoria giuliano-dalmata Splendor, uno di quei posti che li guardi e ti senti precipitare in un’altra epoca, un universo lontano dove non esiste il modernariato e le lettere adesive appiccicate sul vetro della porta di ingresso hanno il carattere delle maglie delle squadre di ciclismo degli anni Settanta. Mi siedo e fisso affascinato la tabella dei vini e liquori, mi chiedo quale possa essere la differenza tra il calice di malvasia normale e quello di malvasia superiore – uno costa settanta centesimi e l’altro ottanta, è che dieci centesimi sembrano nulla ma duecento lire significano qualcosa e allora sì che un vino può essere chiamato superiore. Ordino un primo, e la signora mi guarda e mi chiede ma un antipasto non lo vuole, beh magari, cos’ha, i pedoci alla dalmata, guardi che li trova solo qui, e io in quel momento non ho la più pallida idea di cosa siano i pedoci ma come fai a non fidarti di quell’accento e le dico sì va bene e poco dopo il marito mi porta una pentola metallica piena di cozze fumanti che mi pare di essere tornato indietro di vent’anni a quel giorno freddo e piovoso nel porto di Oban, ma queste sono ancora meglio, sono una cosa di una bontà clamorosa – forse il cibo diventa buono nei posti belli, quelli dove stai bene, in pace con il mondo se non proprio con te stesso. L’uomo ripassa quando ho finito anche il mezzo chilo di pane che ho usato per fare scarpetta e mi chiede se mi sono piaciuti i pedoci, io gli dico che erano magnifici e lui mi dice sono contento e sembra che lo sia davvero. Quando vado a pagare chiedo alla signora come sono fatti e lei risponde con un sorriso, allora io dico ho capito è un segreto e lei ride, lo lasso pensar a tuti che ghe xè un segreto e ride anche il marito che ha un accento diverso, lei non è di qui, no, so’ de Roma, eh mi sembrava, e di dove, Testaccio, e ci mettiamo a parlare dei due cimiteri, quello di guerra e quello acattolico, e il Monte dei Cocci, e di quanto cambia la città da via Ostiense alle mura aureliane – ma sono le aureliane? eh me pare, la signora mi porta le due monete del resto, c’è un’altra porzione di pedoci da portare in tavola, grazie, arrivederci, arrivederci, torni a trovarci.