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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    02/06/2011

    Saluti da Muggia – Splendor

    Filed under: — JE6 @ 22:46

    Esco dalla Risiera di San Sabba, imposto sul navigatore l’indirizzo croato che devo raggiungere per lavoro, esco da questa zona di Trieste fatta di cantieri, stabilimenti, raccordi autostradali. Faccio due conti, ho deciso che arriverò a Pola senza fare l’autostrada e quindi mi ci vorranno un altro paio d’ore, così esco quasi subito per fermarmi a mangiare un boccone a Muggia. Faccio quattro passi, mi fermo a guardare un cartello scritto a mano che dice “faccio un saltino al bagno, ci vediamo martedì”  e impiego qualche secondo a capire che è la versione triestina del back soon, passo davanti alla pescheria comunale e al chilometrico elenco dei tipi di pesce che vi si possono vendere e acquistare, guardo la bandiera del PD appesa fuori dalla sezione che festeggia i 584 voti di preferenza ricevuti e imparo come si dice Partito Democratico in slavo. Vedo una piazzetta che mi attira ma mi dico che tanto il paese è piccolissimo, cammino ancora un po’ su questa via stretta che lo taglia a metà e poi ripasso, e quei cento metri che aggiungo senza motivo se non quello di passare un po’ di tempo a far nulla mi regalano l’ingresso della Trattoria giuliano-dalmata Splendor, uno di quei posti che li guardi e ti senti precipitare in un’altra epoca, un universo lontano dove non esiste il modernariato e le lettere adesive appiccicate sul vetro della porta di ingresso hanno il carattere delle maglie delle squadre di ciclismo degli anni Settanta. Mi siedo e fisso affascinato la tabella dei vini e liquori, mi chiedo quale possa essere la differenza tra il calice di malvasia normale e quello di malvasia superiore – uno costa settanta centesimi e l’altro ottanta, è che dieci centesimi sembrano nulla ma duecento lire significano qualcosa e allora sì che un vino può essere chiamato superiore. Ordino un primo, e la signora mi guarda e mi chiede ma un antipasto non lo vuole, beh magari, cos’ha, i pedoci alla dalmata, guardi che li trova solo qui, e io in quel momento non ho la più pallida idea di cosa siano i pedoci ma come fai a non fidarti di quell’accento e le dico sì va bene e poco dopo il marito mi porta una pentola metallica piena di cozze fumanti che mi pare di essere tornato indietro di vent’anni a quel giorno freddo e piovoso nel porto di Oban, ma queste sono ancora meglio, sono una cosa di una bontà clamorosa – forse il cibo diventa buono nei posti belli, quelli dove stai bene, in pace con il mondo se non proprio con te stesso. L’uomo ripassa quando ho finito anche il mezzo chilo di pane che ho usato per fare scarpetta e mi chiede se mi sono piaciuti i pedoci, io gli dico che erano magnifici e lui mi dice sono contento e sembra che lo sia davvero. Quando vado a pagare chiedo alla signora come sono fatti e lei risponde con un sorriso, allora io dico ho capito è un segreto e lei ride, lo lasso pensar a tuti che ghe xè un segreto e ride anche il marito che ha un accento diverso, lei non è di qui, no, so’ de Roma, eh mi sembrava, e di dove, Testaccio, e ci mettiamo a parlare dei due cimiteri, quello di guerra e quello acattolico, e il Monte dei Cocci, e di quanto cambia la città da via Ostiense alle mura aureliane – ma sono le aureliane? eh me pare, la signora mi porta le due monete del resto, c’è un’altra porzione di pedoci da portare in tavola, grazie, arrivederci, arrivederci, torni a trovarci.

    Saluti da Trieste – La Risiera

    Filed under: — JE6 @ 22:20

    Mi guardo intorno prima di entrare: un deposito con le indicazioni per lo scarico della merce, mi pare che sia della Coop, e dalla parte opposta un discount – parcheggio gratuito per i clienti. Incastrata tra due banali simboli dei nostri tempi, la Risiera di San Sabba è un grande edificio in mattoni rossi, che se non fosse stato un centro di smistamento verso i campi di sterminio nazisti e un luogo dove il crematorio ha bruciato i corpi di migliaia di disgraziati oggi verrebbe catalogato come reperto di archeologia industriale e ospiterebbe loft di aziende hi-tech. E invece. Non ci vuole molto a girarlo, è molto più piccolo di Dachau e Mauthausen – posti che ho visto – ma c’è tutto quello che serve per ricordare ciò che non abbiamo né visto né conosciuto: le celle buie e piccolissime, la camera della morte, lo spazio del crematorio distrutto poco prima dell’abbandono del campo, e l’aria ferma e grigia della morte violenta. Mi tengo a una ventina di metri di distanza da una classe in gita scolastica di fine anno: non sono italiani, avranno sedici anni, cerco di intercettare qualche parola e non la capisco, potrebbero essere sloveni, o croati, o chissà cos’altro. La professoressa li raduna, richiama i capannelli di amiche rimaste indietro. Vicino a una lastra incisa in italiano e in una lingua slava, che riporta le parole di un ragazzo morto nella Risiera nel 1945 – tra poco morirò, addio mamma, addio sorella, addio papà – sta un signore anziano, in giacca e cravatta. Un reduce, credo. Aspetta che i ragazzi facciano silenzio.

    Nel buio

    Filed under: — JE6 @ 09:00

    Il ragazzo si aggiusta il cuscino dietro la schiena, muovendosi piano. Ha le gambe stese sul letto. Allunga la mano per lisciare la piega che i jeans hanno fatto all’altezza del ginocchio. Nel buio quasi totale di quella casa nella quale è entrato solo un’altra volta ascolta i rumori attutiti delle quattro di notte. Non riesce a distinguerli, per farlo ci vuole abitudine: e lui in quel letto è ospite. Sposta gli occhi che si sono abituati all’oscurità, li posa sul comodino – due libri, un telefono, un bicchiere pieno a metà di acqua ormai calda. Chiude le palpebre, visualizza il messaggio che ha ricevuto un paio d’ore prima: non riesco a dormire, puoi venire? E lui senza fare domande ha solo risposto sì, arrivo, ha attraversato la città, ha suonato il citofono, ha aperto la porta e si è sdraiato a fianco della ragazza. Adesso la guarda, e lei dorme.