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10/01/2006
Questo blog si propone di collaborare alla scalata di una banca. Il capocordata c’è già.
Cloridrato di Sviluppina
Verso le 5 del mattino, su Telenova passa un terrificante programma dal titolo “Festival Show“. Castrocaro, in confronto, equivale ai Grammy, per dire.
Ieri mi sono visto Alberto Camerini, che gira ancora con la cresta da ultimo dei mohicani ma ha venticinque chili in più. Questa mattina, Ana Laura Ribas. Poi dice che uno inizia male la giornata (colpa mia, lo so, su RaiDue c’erano le lezioni di Nettuno – decisamente più riposanti).
09/01/2006
In principio fu Beppe Grillo: i politici sono nostri dipendenti, diceva e scriveva ogni volta che ne aveva occasione. E quindi, devono fare ciò che gli diciamo: non è forse questo, il vero significato della parola “democrazia”? Potere del popolo, esercitato pro tempore e su mandato da alcuni soggetti, in nome e per conto di molti altri.
Poi, però, quella posizione è stata fatta propria da altre persone, solitamente – per stile personale e per ruolo sociale – più misurate e meno tribunizie di Grillo nell’espressione delle loro opinioni. Salvatore Bragantini, ad esempio: ex commissario Consob, amministratore delegato di Centrobanca, editorialista del “Corriere della Sera”, proprio sul foglio di via Solferino ha scritto, riferendosi ad Antonio Fazio: “sarebbe giusto dire una parola di verità, oltre che al prevosto, anche agli italiani, dei quali era un dipendente”.
In sè, l’idea non è nè nuova, nè intrinsecamente del tutto errata. Però, abbeverandosi a queste fonti, il palato avverte retrogusti di demagogia e populismo che lasciano perplessi. Ci si lamenta a ogni piè sospinto dell’inadeguatezza della classe dirigente nazionale, ma al tempo stesso si derubricano concettualmente i suoi componenti a meri esecutori, dai quali si pretende solo zelo e onestà. Non che queste siano prerogative trascurabili, ma ci si chiede se questo paese, a destra come a sinistra, vuole davvero avere dei leader, con i quali avere un rapporto dialettico ma ai quali lasciare onori ed oneri di scelte autonome, possibilmente originali e frutto di una visione del mondo e del futuro.
L’esperienza insegna al cittadino italiano che troppo spesso la classe dirigente, e quella politica in particolare, riesce ad agire senza accollarsi le dovute responsabilità; ma la diffidenza che fa parte del patrimonio genetico nazionale non giustifica il considerare chi dovrebbe essere e fare il leader della comunità alla stregua di un travet dalle-nove-alle-cinque: di Fantozzi ce ne basta – e avanza – uno.
08/01/2006
Metto le mani avanti: non sono un esperto di moda, non sono in grado di distinguere Armani da D&G (posto che siano comparabili), non compro giornali che trattano l’argomento, ho imparato solo recentemente cos’è una Birkin (no link, sorry: questione di etica). Sono solo uno che negli ultimi giorni si è trovato in luoghi molto affollati, e ha provato a mettersi in un angolo a guardare.
Arrivando alla conclusione che quella degli italiani, e soprattutto delle italiane, che si vestono bene è una bufala nazionalistica.
Le donne di questo paese, in media, si vestono in modo sciagurato. Calzoni al polpaccio stretti da legacci improbabili. Stivali flosci. Stivali pelosi. Stivali rosa. Calzoni al polpaccio che finiscono appena sopra stivali flosci, pelosi e rosa. Piumini larghi e stretti in vita. Persone alte unoequarantatre che indossano scarpe a punta lunghe cinquanta centimetri. Look da kapò naziste su facce e fisici da casalinghe di Paderno Dugnano. Una galleria degli orrori. La moda italiana. Il gusto delle italiane. Tutte in fila da Prada-Gucci-CalvinKlein. Ma per piacere.
07/01/2006
Cosa passa nella mente di un uomo che, per motivi qui irrilevanti, si ritrova davanti al più classico orinatoio a muro con la vescica piena e grossa quanto una cornamusa scozzese, e scopre che gli si è incastrata la cerniera dei jeans?
So che non ci crederete mai, ma quell’uomo non ero io; era il mio vicino di minzione, e giuro che ho avuto l’istinto di aiutarlo. E’ che, cerniera a parte, ero nelle sue stesse condizioni.
06/01/2006
Di tanto in tanto, mi capita di tenere seminari o presentazioni sul marketing diretto – quella cosa che mi dà da mangiare ma che non riesco a spiegare a mia figlia (lei ha imparato che deve dire che il papà lavora in pubblicità, ma non so se ho fatto un grande affare – come si vedrà tra poco).
Inizio più o meno sempre allo stesso modo: un abitante di una metropoli occidentale riceve tra mezzo e un milione di messaggi commerciali in un anno. Gli spot in televisione e le inserzioni sulla stampa sono solo una minima parte, di questi; solo sulla tastiera del mio portatile ho due loghi HP, il logo Windows, quello Intel, quello Celeron, quello Microsoft e quello WinXP. Se incontro una bloggeuse del MicroBlogGiallo, le vedo addosso tanta pubblicità quanta se ne trova sulla tuta di Schumacher. Se entro in un supermercato, ogni etichetta vale uno spot – e contate un po’ voi quante ne vedete su uno scaffale medio. Insomma, ci siamo capiti.
Ora, la pubblicità (ma il termine è generico, un calderone nel quale entra quasi qualunque cosa) a tante persone sembra, semplicemente, “troppa”. C’è troppo rumore, e il rumore non fa altro che aumentare. Non solo. Tante persone hanno l’impressione che la pubblicità sia il Grande Fratello, o il Grande Vecchio, che determina i contenuti della televisione, della stampa, del web, dello sport – e, nel nostro paese, anche della politica.
C’è del vero, e sarebbe stupido negarlo.
Ma, prima di tutto: la pubblicità non è un’entità a sè stante, dotata di vita propria. Accusare la pubblicità è come accusare un coltello: ce la si prende con lo strumento, e non con chi lo crea e – soprattutto – con chi lo usa (male).
La pubblicità non è altro che il prodotto del lavoro e del pensiero di molte persone. Prodotto buono o cattivo, questo è un altro discorso, ma bisogna impostare correttamente i termini del discorso. Non solo: chi dà vita alla pubblicità, i pubblicitari e i loro clienti, o chi, ad esempio, fa la fila al freddo per entrare nei negozi di via Montenapoleone? Faccio un altro esempio. Immagino che nelle quattro settimane prima di Natale sarete stati tempestati di lettere che vi chiedevano donazioni per questa o quella associazione caritatevole: Unicef, Save the Children, Emergency, e così via. Per lavoro, conosco quelle azioni pubblicitarie; so quanti messaggi vengono spediti, quanti ritornano, quante sono le donazioni. Credetemi: funzionano. Praticamente tutte. Non funzionassero (cioè: non portassero degli “utili”, e consistenti), non verrebbero fatte.
Da ultimo: la pubblicità non è troppa. Sono troppe le aziende. E’ brutto dirlo, siamo cresciuti nel mito della concorrenza, e questa ha bisogno di tanti attori. Ma ognuno di questi ha bisogno, per sopravvivere, di parlare al resto del mondo (a dire il vero, avrebbe ancor più bisogno di ascoltare, ma transeat). Fiat, Renault e Peugeot, per la natura stessa delle cose che fanno, si rivolgono (si devono rivolgere) alle stesse persone, e inevitabilmente lo fanno nello stesso modo e negli stessi tempi. E devono “alzare la voce”. Anni fa conobbi un alto dirigente di Sipra, la concessionaria di pubblicità della Rai. Mi raccontò che il suo più grande investitore, in assoluto uno dei tre più grandi in Italia, spendeva ogni anno il 20% in più di quanto gli sarebbe stato sufficiente, al solo scopo di impedire al suo principale concorrente di acquistare spazi che gli avrebbero probabilmente permesso di diventare il primo “player” del mercato. Era ed è una follia, con tutta evidenza: ma se un’azienda vende merendine, deve fare pubblicità in televisione, non ci sono santi. E se le aziende sono due (tre, dieci, cinquanta), beh, sapete bene cosa succede.
Insomma, il mondo non è bello. In questo post di Sergio Maistrello (e, soprattutto, nei suoi commenti) chi fosse interessato all’argomento troverà parecchi spunti e punti di vista. Vi dico solo due cose: provate a non far dipendere il giudizio sul funzionamento del sistema dai vostri gusti e/o idiosincrasie; e diffidate dagli annunci di incipiente Armageddon.
Sergio Maistrello
05/01/2006
Se capitate in quel di Google e digitate “Cimitero Monumentale Milano“, trovate un fantastico link che recita Cimitero Monumentale di Milano: Leggi le Opinioni e compara i prezzi. Immagino che la comparazione avvenga con i cimiteri di Lambrate e Musocco, e che il Monumentale costi di più per la sua nobiltà.
Google.it
Non dirò perchè faccio ricerche di questo genere. Tra un po’ (non tanto, spero), abbiate pazienza.
Secondo il Corriere, quello dei due fratelli morti – a quanto pare – di influenza aviaria in Turchia (per la precisione, stando a Repubblica, in un ospedale della provincia di Van, nella zona orientale del paese al confine con Iran e Armenia) è il primo caso di contagio umano registrato in un paese occidentale. La matematica non è un’opinione, la geografia – evidentemente – sì.
Corriere.it, Repubblica.it
Questa mattina non ho comprato quotidiani. Ma mi fido di Oscar Giannino, che a Prima Pagina riferisce, con tono a dir poco ironico, che il Corriere della Sera di oggi dedica le prime dodici pagine alla vicenda Unipol-DS. Ora, dodici pagine il Corriere le ha dedicate forse alle Twin Towers e allo tsunami; e ieri, la vicenda in questione si è solamente arricchita di un altro capo di imputazione in testa a Consorte e di una dichiarazione quanto mai prevedibile del PresDelCons.
Insomma, il Corriere ci va giù pesante. Più di quello che ci si attenderebbe da un giornale, seppure nell’esercizio del suo diritto di presa di posizione su una questione di interesse pubblico. Paolo Mieli vuole diventare il capo di quel laocoontico agglomerato chiamato centrosinistra? Non credo; ma forse ne vuole diventare il deus ex machina, o quantomeno colui che ne detta la linea – spazzando via dalla scena i concorrenti che più gli danno fastidio o con i quali ha dei conti aperti.
Il Corriere sta facendo campagna elettorale, e fin qui, niente da dire; ma a me sembra che la stia facendo per se stesso, e questo mi piace un po’ meno: quando leggo un giornale, vorrei evitare di impegnarmi nella dietrologia, anche se questa è sport nazionale.
Prima Pagina, Corriere della sera
04/01/2006
Credo che qualunque abitante di una metropoli abbia desiderato, almeno una volta nella sua vita, di trasformarsi nel Michael Douglas di Un giorno di ordinaria follia. Camicia immacolata, nodo della cravatta ben stretto, piega perfetta dei pantaloni. E un mitra in mano, per sfogare l’urlo che Munch faceva tirare fuori alle sue sgraziate figure, e che noi, invece, reprimiamo con bello stile.
Ecco, questa mattina, quando ho dovuto rinunciare a prendere la macchina dopo una vana attesa di quaranta minuti al freddo del gennaio milanese, perchè un cretino di proporzioni bibliche mi aveva irrimediabilmente bloccato parcheggiando la sua macchina appena fuori dal mio box e andandosene poi chissà dove (spero dove l’ho mandato io, ma dubito), indossavo la mise perfetta: un Michael Douglas invernale, un filo più casual. Come al solito, mi mancava il mitra; ma verrà il giorno, oh se verrà.
Il titolo del post è un omaggio a una gentile lettrice. Spero che apprezzi.
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