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15/06/2011
[Metafore] Poco fa guardavo la cassetta della posta del più grande distributore italiano di pubblicità non indirizzata. C’è un pezzo di nastro adesivo sopra, che dice “no pubblicità”. Mi sono chiesto se l’AD non sia per caso un ecologista libertario a cinque stelle.
14/06/2011
Ieri sera guardavo le percentuali dei votanti – identiche al decimale per tutti e quattro i referendum – e quelle dei sì e dei no – idem, circa – e mi veniva da ridere al pensiero di tutte le mie riflessioni condotte fino al momento in cui lo scrutatore mi ha chiesto se avrei votato per tutti e quattro i quesiti nazionali – sì – e per tutti e cinque i cittadini – sì – e anzi, fino all’interno della cabina per almeno una delle schede davanti alla quale mi sono fermato un po’, tanto fuori non c’era nessuno che aspettava, e ci ho ripensato un’ultima volta. Mi veniva da ridere perché a guardare quei numeri era chiaro che una, quattro o quaranta domande non avrebbe fatto differenza alcuna, ha ragione Formigoni*, gli elettori avrebbero votato su qualsiasi questione, la legalità del gelato al pistacchio, i colori dell’inchiosto delle penne biro, qualsiasi cosa pur di dire al PresDelCons “adesso basta, grazie e a mai più rivederci”. Quei numeri mi confermavano quello che sapevo e che sapevamo tutti: i promotori dei referendum avevano raccolto le firme per un motivo e gli elettori avevano votato per un altro, che è quello che succede con i libri, non conta davvero quello che viene scritto, conta quello che viene letto ed è inutile spaccare il capello in quattro per dire se questo sia giusto oppure no; e comunque alla fine rimane la consolazione bene espressa da Paolo: Io non sapevo come l’acqua arrivava al mio rubinetto di casa e chi la gestisse, a quale costo. Adesso lo so. E se ho sbagliato, se il Paese ha sbagliato. Pazienza. Ne facciamo di cazzate.
* Ci sono quelle giornate un po’ così, quelle nelle quali ascolti Stefania Craxi alla radio e ti ritrovi a pensare “beh, ha ragione”, dieci minuti dopo il cervello obnubilato dal traffico della tangenziale ti viene attraversato dall’idea di iscriverti una buona volta al PD, due ore dopo fai involontariamente sì con la testa mentre parla Formigoni, fortuna che c’è sempre qualcuno che poi ti dice “non saprei da dove iniziare a insultarti” e tutto ritorna al suo posto.
12/06/2011
Fatte le debite (Kate Moss) relativizzazioni del senso dato al termine “tutti” – dove questo significa normalmente “un tre quarti buoni di coloro che conosco, frequento, leggo” – c’è chi possiede il particolare talento (How I Met Your Mother) di essere praticamente sempre fuori sincrono rispetto agli (The Beatles) entusiasmi e alle passioni di chi lo circonda. Sono quelli che arrivano dopo, e se tutto va (Il profumo) bene possono contare sulla compassione benevola e stanca (iPod, iPad, iEverything) di chi stava sul pezzo fin dai trailer – “ben svegliato, ti sei deciso a vedere quella serie”. Sono quelli (Lost) che vorrebbero far parte della grande (Michele Santoro) famiglia, e si mettono di impegno: scaricano i (Lady Gaga) torrent, impostano i MySky, vanno in libreria. Eppure c’è sempre (Canemucco) qualcosa che sfugge loro, non ridono abbastanza, non (The Big Bang Theory) si commuovono abbastanza, non imparano le battute – quelle battute – a memoria, non gli viene da battere il piede tra Conciliazione e Duomo mentre nelle orecchie gli entra quell’mp3. Se ne sono fatti una ragione (in tutti i laghi) da un pezzo, ma ciò nonostante non smettono di chiedersi “cos’ho che non va”. La cosa che gli dispiace di più è che anche chi li conosce bene, persino chi li conosce meglio (Glee) molto spesso pensa che siano dei puntacazzisti, gente che decide consapevolmente di giocare il ruolo del bastian contrario: e invece loro vorrebbero solo essere come gli altri, per stare in società come tutti. Ma non ci riescono, oppure ci riescono troppo di rado; allora decidono di stare zitti e amen, come quelli che alle feste delle medie si sedevano in un angolo in attesa che tutto finisse per poter uscire in strada e tornare a casa, in fondo si può sempre trovare il vicino di casa in ascensore, e parlare del tempo.
(Sì, stanotte mi sono messo in pari, e ho guardato lo spettacolo di Guzzanti)
10/06/2011
Stamattina guardavo le prime pagine del Manifesto e di Liberazione, quelle che “lo dice anche il Papa”, e ho pensato che almeno quell’uomo lì una certa coerenza nelle sue posizioni ce l’ha – cosa che non si può dire di tutti i suoi celebratori odierni.
08/06/2011
Ci sono giorni che stai dalle nove di mattina alle sei di sera dentro due padiglioni alti e pieni di gente, con la sveglia del telefono che ti avvisa per sette o otto volte “fra un quarto d’ora, stand A414” e allora fai mente locale – con chi devi parlare, e di cosa – e quando esci piove e fa freddo e ti rendi conto che devi aver fatto casino prenotando l’albergo o che Expedia ha un concetto di città piuttosto esteso perché ti ritrovi in un paesino di campagna, bello lindo e silenzioso ma nel quale stasera proprio non te la senti di fermarti. Sono quei giorni che ti cambi e vinci la stanchezza biblica che ti pervade e punti diretto verso il centro, passi il ponte sul fiume, attraversi la piazza del mercato, costeggi le mura del castello puntando verso un luogo preciso – e non è solo perché hai fame che ci stai andando, è che la città la conosci, l’hai già girata, l’hai vista con il sole e con la pioggia, con il caldo asfissiante della prima volta e con il freddo di quella sera che hai trovato per caso un amico olandese e ci hai bevuto un paio di birre assieme, e insomma ti puoi permettere di volere semplicemente andare a sederti lì, alla Hausbreuerei Altstadthof, che è piccola e non è forse la più caratteristica fra tutte, ma è quella con la lavagna che riporta una frase di Martin Lutero – “Wer kein Bier hat, hat nichts zu trinken”, chi non ha una birra non ha nulla da bere – è quella dove, vai a sapere perché, ti senti come a casa, come sul tuo divano, e infatti quando ti rialzi e paghi e esci lo fai per andare a letto, a fare i turisti ci pensiamo un’altra volta, ci pensiamo l’anno prossimo.
07/06/2011
Mentre sono di fronte alla macchina dei biglietti della rete ferroviaria di Monaco, in questo aeroporto enorme e silenzioso dove Lufthansa offre il caffè ai suoi passeggeri – quelli che aspettano di partire e quelli che arrivano -, la macchina che mi permette di fare un biglietto seguendo istruzioni date in una mezza dozzina di lingue, la macchina che poi mi stampa (in italiano) il percorso con tanto di numero di binario di partenza e di arrivo del primo e del secondo treno, in quel preciso momento mi trovo per l’ennesima volta a pensare che qui avranno un po’ di bellezze storiche in meno rispetto a noi che stiamo a sud delle Alpi, ma si sono costruiti con una determinazione tanto feroce da sembrare del tutto naturale una forma di bellezza della vita parallela, fatta di marciapiedi larghi e lettere che arrivano in due giorni e display sugli autobus che collegano l’hinterland e boschi dentro la cintura urbana, una forma di bellezza che consiste, verrebbe da dire banalmente se mai in tutto questo fosse rintracciabile una qualsiasi banalità, nel non rendersi la vita più faticosa e complicata e difficile di quanto già non sia di suo. Poi, niente e nessuno è perfetto, e infatti l’autobus che arriva a Grasbrunn accumula novanta secondi di ritardo in nove fermate, e non hanno idea né dell’origine né di come neutralizzare il batterio killer che ha ammazzato una ventina di persone su a nord; e però – sarà che l’erba del vicino è sempre più verde – a me rimane questa sensazione di un posto dove non devi sprecare tanto tempo e altrettante energie per sopravvivere a un insensato percorso a ostacoli buono solo a farci dire, una volta arrivati a casa e opportunamente sdivanati, madonna che stanchezza.
04/06/2011
Rijeka, la nostra Fiume, quella dove sui muri dell’edificio che fa da deposito della posta croata trovi ancora le vecchissime scritte “Vietato fumare” non ha nulla di particolare. Il centro storico, quello del Korso e della torre e dei musei che conservano gli archivi di stato e delle case barocche nel parco, è piccolo e carino, pieno di gente che beve caffè e ragazzi che giocano a palla prigioniera. Ma non è quello che mi resterà in mente, per ricordarla serviranno le fotografie della digitale compatta; no, è un’altra cosa, altrettanto banale – il mare, e le barche e le navi, queste cose che si muovono, che vanno, che danno l’idea che qui si possa stare e da qui si possa andare, e sì, pure tornare, che ci sia una specie di movimento sotterraneo, chiuso alla vista dai turisti e dalle macchine in coda per parcheggiare vicino al mercato enorme e affollatissimo, che ci sia un movimento possibile, è questa la cosa che mi ricorderò di Fiume, di Rijeka.
03/06/2011
Si tengono la mano, lui ha i capelli lunghi, tinti di biondo, tirati all’indietro e tenuti dal gel, lei ha un vestito a piccoli scacchi bianchi e neri, un tatuaggio di Betty Boop poco sopra la caviglia destra, e se avesse i capelli più corti sembrerebbe Rizzo. Non sono belli come gli originali, e fa ridere pensare a due personaggi di un film come agli originali, ma sono veri e sono qui. Sono venuti ad ascoltare la musica che io ho trovato per caso, salendo in macchina e staccando il navigatore fino a trovarmi sul lungomare di un paesino nella punta meridionale dell’Istria, sono venuti perché questa è la seconda sera del Croatian Rockabilly Festival, uno pensa a questi posti, a tutto ciò che sta dall’altra parte dell’Adriatico e gli viene in mente – se tutto va bene – Goran Bregovic e invece no, ecco la batteria suonata con le spazzole e il contrabbasso grande e grosso e quella chitarra ritmica che pare non avere mai pace, il rockabilly qui, ma diosanto, ma ti pare che c’entri qualcosa, eppure sì, c’entra, ha un senso perché ha portato qui questi due ragazzi, lui tarchiato e tinto, lei più alta e – aiutami, come si chiama la protagonista di Grease, Sally o Sandy? Sandy, quante volte te lo devo dire – alta e con le guance rosse e i tacchi sui quali cammina un po’ timorosa, chissà quanto saranno belli quando inizieranno a ballare, meno fuori posto di noi turisti, di noi businesseman con la cena in nota spese.
02/06/2011
Esco dalla Risiera di San Sabba, imposto sul navigatore l’indirizzo croato che devo raggiungere per lavoro, esco da questa zona di Trieste fatta di cantieri, stabilimenti, raccordi autostradali. Faccio due conti, ho deciso che arriverò a Pola senza fare l’autostrada e quindi mi ci vorranno un altro paio d’ore, così esco quasi subito per fermarmi a mangiare un boccone a Muggia. Faccio quattro passi, mi fermo a guardare un cartello scritto a mano che dice “faccio un saltino al bagno, ci vediamo martedì” e impiego qualche secondo a capire che è la versione triestina del back soon, passo davanti alla pescheria comunale e al chilometrico elenco dei tipi di pesce che vi si possono vendere e acquistare, guardo la bandiera del PD appesa fuori dalla sezione che festeggia i 584 voti di preferenza ricevuti e imparo come si dice Partito Democratico in slavo. Vedo una piazzetta che mi attira ma mi dico che tanto il paese è piccolissimo, cammino ancora un po’ su questa via stretta che lo taglia a metà e poi ripasso, e quei cento metri che aggiungo senza motivo se non quello di passare un po’ di tempo a far nulla mi regalano l’ingresso della Trattoria giuliano-dalmata Splendor, uno di quei posti che li guardi e ti senti precipitare in un’altra epoca, un universo lontano dove non esiste il modernariato e le lettere adesive appiccicate sul vetro della porta di ingresso hanno il carattere delle maglie delle squadre di ciclismo degli anni Settanta. Mi siedo e fisso affascinato la tabella dei vini e liquori, mi chiedo quale possa essere la differenza tra il calice di malvasia normale e quello di malvasia superiore – uno costa settanta centesimi e l’altro ottanta, è che dieci centesimi sembrano nulla ma duecento lire significano qualcosa e allora sì che un vino può essere chiamato superiore. Ordino un primo, e la signora mi guarda e mi chiede ma un antipasto non lo vuole, beh magari, cos’ha, i pedoci alla dalmata, guardi che li trova solo qui, e io in quel momento non ho la più pallida idea di cosa siano i pedoci ma come fai a non fidarti di quell’accento e le dico sì va bene e poco dopo il marito mi porta una pentola metallica piena di cozze fumanti che mi pare di essere tornato indietro di vent’anni a quel giorno freddo e piovoso nel porto di Oban, ma queste sono ancora meglio, sono una cosa di una bontà clamorosa – forse il cibo diventa buono nei posti belli, quelli dove stai bene, in pace con il mondo se non proprio con te stesso. L’uomo ripassa quando ho finito anche il mezzo chilo di pane che ho usato per fare scarpetta e mi chiede se mi sono piaciuti i pedoci, io gli dico che erano magnifici e lui mi dice sono contento e sembra che lo sia davvero. Quando vado a pagare chiedo alla signora come sono fatti e lei risponde con un sorriso, allora io dico ho capito è un segreto e lei ride, lo lasso pensar a tuti che ghe xè un segreto e ride anche il marito che ha un accento diverso, lei non è di qui, no, so’ de Roma, eh mi sembrava, e di dove, Testaccio, e ci mettiamo a parlare dei due cimiteri, quello di guerra e quello acattolico, e il Monte dei Cocci, e di quanto cambia la città da via Ostiense alle mura aureliane – ma sono le aureliane? eh me pare, la signora mi porta le due monete del resto, c’è un’altra porzione di pedoci da portare in tavola, grazie, arrivederci, arrivederci, torni a trovarci.
Mi guardo intorno prima di entrare: un deposito con le indicazioni per lo scarico della merce, mi pare che sia della Coop, e dalla parte opposta un discount – parcheggio gratuito per i clienti. Incastrata tra due banali simboli dei nostri tempi, la Risiera di San Sabba è un grande edificio in mattoni rossi, che se non fosse stato un centro di smistamento verso i campi di sterminio nazisti e un luogo dove il crematorio ha bruciato i corpi di migliaia di disgraziati oggi verrebbe catalogato come reperto di archeologia industriale e ospiterebbe loft di aziende hi-tech. E invece. Non ci vuole molto a girarlo, è molto più piccolo di Dachau e Mauthausen – posti che ho visto – ma c’è tutto quello che serve per ricordare ciò che non abbiamo né visto né conosciuto: le celle buie e piccolissime, la camera della morte, lo spazio del crematorio distrutto poco prima dell’abbandono del campo, e l’aria ferma e grigia della morte violenta. Mi tengo a una ventina di metri di distanza da una classe in gita scolastica di fine anno: non sono italiani, avranno sedici anni, cerco di intercettare qualche parola e non la capisco, potrebbero essere sloveni, o croati, o chissà cos’altro. La professoressa li raduna, richiama i capannelli di amiche rimaste indietro. Vicino a una lastra incisa in italiano e in una lingua slava, che riporta le parole di un ragazzo morto nella Risiera nel 1945 – tra poco morirò, addio mamma, addio sorella, addio papà – sta un signore anziano, in giacca e cravatta. Un reduce, credo. Aspetta che i ragazzi facciano silenzio.
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