Greetings from Trieste – Dall’alto dei colli e dentro le luci
Quando una curva della strada che scende da Opicina ci mostra il mare e il porto sento papà mormorare “La mia città” – e quello sarà uno dei due momenti (l’altro quando un carabiniere in mimetica blu gli aprirà il portone del reggimento di Gorizia e gli regalerà un quarto d’ora nella caserma dove entrò ragazzo nel 1952) nei quali saprò che siamo qui per un buon motivo. E’ bello guardare le città dall’alto, ne vedi il perimetro, le forme, le linee, un po’ come vorremmo ogni tanto fare nella vita, tirarci fuori e osservare da un altro punto di vista le nostre stesse cose. Poi scendiamo. Mi piace Trieste, questo suo sembrarmi una città austriaca con le macchie di un passato lontano – gli ori della chiesa greco-ortodossa, i nomi slavi, la cupola della chiesa serba con le scritte in cirillico – e il suono allegro del dialetto, il ragazzo nero che telefona seduto ai piedi del monumento ai bersaglieri mentre le due sartine di bronzo che cuciono la bandiera italiana lo guardano. E’ più bella oggi, dice papà, lui che in sella alla sua Guzzi arrivò in questa piazza magnifica il giorno che Trieste tornò a essere italiana, e sono silenziosamente orgoglioso di lui perché non si lascia vincere dalla nostalgia dei tempi che furono, della sua gioventù, non si lascia schiaffeggiare dal non ritrovare uno spiazzo o un bar, dal non rivedere se stesso e quel manipolo di giovani con i quali guardava attonito i cannoni jugoslavi puntati verso l’Italia, con i quali correva per ore e ore lungo le strade del Carso. La sera, mentre guardiamo i fuochi d’artificio che illuminano i moli e la grande nave da crociera, ripenso a quella frase – “La mia città” -, l’ha detta seriamente anche se qui ha passato uno solo dei suoi ottantuno anni di vita; e stando qui, dentro le luci, nel casino organizzato dei caffé storici, dei turisti che passeggiano e degli indigeni che si ritrovano, stando dentro a quel perimetro, a quelle forme e linee che perdono il loro senso geometrico ma acquistano il confuso e indispensabile passo delle cose di tutti i giorni, stando qui sono contento per lui, lui che pensa di aver ricevuto un regalo con questi due giorni all’ombra di San Giusto e invece il regalo lo sta facendo, e lo fa nel modo migliore, più bello: senza saperlo. Sentiamo l’ultimo botto, in cielo si apre un’enorme palla colorata, la ruota del microscopico luna-park montato sulla Riva riprende a girare.