Settemila caffè
Qualche settimana fa, provando a spiegare il lavoro mio e dei miei colleghi a qualche decina di laureandi, ho pensato bene di impartirgli la più banale delle lezioncine dicendogli che per fare questo mestiere (e, immagino, la gran parte di tutti gli altri) bisogna “saper accettare la sconfitta“. Saper incassare il no di un cliente – o la sua insoddisfazione -, saper riprendere in mano un progetto sul quale stai lavorando da un anno con due aziende diverse e ripartire per la quarta volta da zero, saper fare la prima telefonata e poi la seconda e poi la terza e spuntare i nomi sul foglio in attesa di una risposta positiva, saper leggere un articolo di legge che ti dice “no, così non si può fare” e non scagliare il codice contro il primo muro a portata di lancio, sapersi presentare a un appuntamento sentendosi dire “scusami, mi ero dimenticato, sto uscendo per andare a fare una visita medica, quando torni a Roma?” senza sibilare il più velenoso degli insulti che ti viene alla bocca. Bisogna insomma essere capaci di alzarsi dalla scrivania e decomprimere e bere l’ennesimo caffè della mattina (“te lo porto?”, “no, grazie, vengo io alla macchina”, “quanti ne hai bevuti stamattina?”, “sei”, “ma non è ancora mezzogiorno”, “eh”), sedersi nuovamente e riprendere, aspettando con pazienza, come il centravanti che non riesce a segnare per nove partite consecutive, fino a quando un rimpallo gli colpisce la tibia e torna a fare gol. Ecco, io a quei ragazzi gliele ho dette queste cose: adesso se voi volete spiegarmi come si fa, insomma, vi sarei riconoscente, davvero.