Non sta simpatico a nessuno, il Roby.
Perchè è giovane, perchè è bravo, perchè è molto bravo, perchè è un insopportabile sbruffone.
Non parla milanese, e figurati, ha venticinque anni ed è di origine pugliese. Tira di stecca da quando aveva tredici o quattordici anni, ed ha passato sul tavolo molte più ore di quante ne abbia spese sui libri di scuola.
Degli anziani se ne frega, per lui sono solo avversari, ai quali far pagare il biliardo e l’inevitabile saccenteria dell’età. Li prende in giro, a volte, quando mancano una biglia, quando rimangono scoperti per un giro e messa da otto punti, quando fanno fatica ad allungarsi sul panno verde per l’artrosi e la pancia. Loro lo odiano, ma non puoi rifiutare ad uno bravo – il più bravo del locale, e su questo non c’è dubbio – di giocare sul tavolo che vuole, dopo aver aspettato il suo turno.
A volte gli capita di perdere. Capita a tutti, in fondo. E lui non si lamenta, non dice che è colpa del puntale vecchio, del gesso scadente, dell’umido, del caldo, delle stelle contrarie. Non concede soddisfazione, non ammette che l’altro è stato più bravo, una volta tanto. Se la prende silenziosamente con se stesso, poi gonfia il petto di quel corpo tozzo che si ritrova, se può si fa dare subito la rivincita, altrimenti attende tra una birra ed una sigaretta di rimettersi davanti alle biglie, e di farle girare come qui dentro sa fare solo lui, l’unico che si sia mai visto tirare tre volte di fila un sette sponde a marcare punti.
Torna a vincere, allora, il Roby, che non ha amici ma solo gente di ogni età che gli sorride a denti stretti perchè è comodo vivere di luce riflessa. Alla fine della giornata, gli rimane sulle dita una patina di gesso, di saponaria e di fumo, e nell’anima l’amaro gusto della vittoria senza festa, come il patriarca di un romanzo che non ha mai letto. Con quello torna a casa, aspettando un altro domani senza allegria.